Il 14% del Pil italiano: tanto vale il settore factoring nel nostro Paese, in crescita anno su anno secondo i numeri condivisi da Assifact, associazione di categoria degli operatori del settore.
Nei primi cinque mesi del 2024 il volume d’affari complessivo del factoring in Italia ha raggiunto infatti i 113,11 miliardi di euro, in crescita del 2,46% anno su anno e non troppo distante dal tasso medio di crescita del 3,58% previsto a fine 2024.
Crescono, in parallelo, le operazioni di supply chain finance, a quota 11,45 miliardi di euro a fine maggio 2024 (+ 4,02%), in uno scenario complessivo che vede un calo del 3,8% del credito erogato alle imprese dal 2022 al 2023 a fronte di un sostanziale mantenimento de volumi da parte del factoring, il quale si conferma essenziale per contribuire alla tenuta finanziaria e alla continuità di oltre 32 mila imprese clienti (di cui il 63% PMI).
Oltre ai numeri, infatti, emerge come la diffusa abitudine di tardare i pagamenti – soprattutto da parte delle corporate e capofiliera nei confronti delle PMI – confermata di recente anche dall’ultimo studio Cribis, abbia come effetto quello di rallentare tanto la crescita economica quanto di danneggiare le relazioni di fiducia tra le aziende stesse.
In questo senso, strumenti come il factoring e l’invoice trading rivestono un ruolo che non è mai stato puramente “finanziario”, ma anche sociale e di fondamentale contrappeso alla tenuta del “sistema Italia”: offrire alle PMI un’alternativa rispetto al credito tradizionale per accedere rapidamente alla liquidità necessaria, soprattutto in tempi di forte crisi, rialzo dei tassi di interesse e rallentamento economico, consente di attutire gli effetti più deleteri dei ritardi nei pagamenti e di comportamenti e abitudini così difficili da sradicare.
Vale la pena concludere con la dichiarazione rilasciata da Angelo Camilli, vice presidente di Confindustria per il Credito, la Finanza e il Fisco, al Sole 24 Ore, in occasione della presentazione dei numeri di Assifact: «I ritardi di pagamento rappresentano un nodo alla crescita. È necessario introdurre una cultura dei pagamenti rapidi, innanzitutto nei rapporti tra la Pa e le imprese, ma anche tra imprese, per scoraggiare il rischio di comportamenti finalizzati ad allungare i termini di pagamento o ritardare l’invio della fattura»
Il miglioramento c’è, ma non si vede. Almeno non nelle storie quotidiane delle aziende che devono fare i conti con la cronica mancanza di puntualità nei pagamenti. A certificarlo, anche quest’anno, lo Studio Pagamenti 2024 di CRIBIS secondo il quale l’Italia è risalita di una posizione, al 18° posto sui 25 Paesi scrutinati in Europa.
Crescono i ritardi gravi, passati dal 9,1% al 9,6% del totale rispetto all’anno precedente, ma soprattutto cresce il divario tra le due aree del Paese: dal nord al centro-sud aumentano i ritardi oltre i 30 giorni, con le piccole e medie imprese che si allineano al trend in atto anche tra le aziende maggiori.
Nello specifico, tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023 è aumentata “solo” dello 0,5% la percentuale di pagamenti puntuali alla scadenza (dal 40,9% al 41,1%), rispetto a percentuali che in Paesi come Francia, Spagna, ma anche Ungheria, Slovenia e Croazia viaggiano stabilmente sopra il nostro Paese.
In testa alla classifica europea dei Paesi dove le aziende pagano puntualmente si colloca la Danimarca con il 94,2% del totale, mentre sono le imprese della Romania quelle che viaggiano stabilmente agli ultimi posti con oltre 9 pagamenti su 10 mancati al sopraggiungere della scadenza.
Il confronto con le altre economie non manca, tuttavia, di sollevare più di un allarme. “Il nostro posizionamento rappresenta un evidente problema di competitività – ha dichiarato Marco Preti, Amministratore delegato di Cribis – ogni volta che le aziende italiane devono fare qualcosa per ottenere un pagamento perdono marginalità. Le aziende devono imparare a rispondere al clima di incertezza, un fattore di mercato che durerà a lungo“.
Bankitalia conferma: prosegue il calo della domande di credito da parte delle aziende italiane, in atto da più di 15 mesi consecutivi, a fronte di un maggiore ricorso all’autofinanziamento da parte delle aziende e di un irrigidimento delle concessioni di accesso ai tradizionali canali di finanziamento.
Secondo gli ultimi dati sull’andamento del credito ad imprese e famiglie, infatti, nel corso del primo trimestre del 2024 i termini e le condizioni generali sui finanziamenti alle imprese si sono lievemente irrigiditi, soprattutto per quanto riguarda la crescita dei tassi di interesse praticati sui prestiti per quanto riguarda i clienti percepiti dagli intermediari come più rischiosi.
Perdura, quindi, la stretta sul credito segnalata da tutti gli indicatori, ma lievemente migliore rispetto agli ultimi mesi: secondo l’ultimo sondaggio BCE, infatti, la percentuale di imprese che ha avuto un aumento degli interessi sui prestiti è calata al 43% rispetto al 75% dell’ultimo trimestre 2023, mentre gli altri costi di finanziamenti hanno riguardato il 37% delle aziende rispetto al 49% della rilevazione precedente.
Non è un caso, quindi, che in questo scenario continuino a crescere in volumi e popolarità gli strumenti di supply chain finance come emerso dall’ultima edizione dell’omonimo Osservatorio del Politecnico di Milano: dal dynamic discounting all’invoice trading, dal confirming al purchase order finance, sono numerosi gli strumenti di finanziamento alternativi che vanno ad integrarsi con i tradizionali canali di factoring e anticipo fatture bancario per favorire l’accesso alla liquidità delle aziende.
Se è ancora presto per fare previsioni di lungo periodo, emerge tuttavia chiaro dai dati come le aziende abbiano imparato rispetto agli anni dell’ultima grande crisi economica ad anticipare i (som)movimenti del mercato del credito tramite una strategia di distribuzione del rischio. Non più dipendenti da una singola banca, le aziende italiane sembrano essere nelle condizioni oggi anche di non dipendere più da un unico canale di finanziamento, tradizionale o innovativo che sia, servendosi a vario titolo di soluzioni complementari – come l’invoice trading online – per far fronte a una domanda di liquidità esplosa con la crescita dei prezzi delle materie prime e le ricorrenti tensioni a cui sono sottoposte le supply chain globali.
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Resiste l’inflazione, i tassi di interesse calano troppo lentamente, l’accesso al credito bancario diventa sempre più problematico: non è un caso che in uno scenario di questo tipo cresca l’interesse verso le soluzioni di supply chain finance da parte soprattutto delle piccole e medie imprese, le più colpite dallo scenario avverso di questi ultimi mesi.
Secondo i dati dell’Osservatorio Supply Chain Finance della School of Management del Politecnico di Milano, le soluzioni più diffuse quando si tratta di credito di filiera restano il factoring, per un valore totale di 60,4 miliardi di euro, e l’anticipo fatture, per un valore di 54 miliardi di euro, entrambi stabili rispetto ai valori raggiunti nel 2022. Al terzo posto segue, da lontano, il reverse factoring con 8,9 miliardi di euro di valore e una crescita del 10% anno su anno.
Distanziati, ma in forte crescita, risultano essere il Dynamic Discounting (+32%, valore totale 700 milioni di euro), l’invoice trading (+24%, 500 milioni di euro), la Carta di Credito B2B (+13%, a quota 3,5 miliardi di euro) e il Purchase Order Finance (+1%, per 1,1 miliardi di euro totali). Cala, seppur solo del 2%, il Confirming (1,6 miliardi di euro di valore nel 2023). Strumenti alternativi, questi ultimi, capaci di fornire un accesso agevolato alla liquidità in maniera più flessibile e spesso più tecnologicamente avanzata dei fornitori di servizi maggiori.
Rimane ampio, tuttavia, il potenziale di crescita del mercato del supply chain finance: su un valore totale di 130 miliardi di euro coperti dalle soluzioni esistenti, il valore totale del mercato potenziale del credito di filiera si colloca nel 2023 in una forbice compresa tra i 563 e 575 miliardi di euro di crediti commerciali, segnale di un possibile bisogno inevaso dalle soluzioni più diffuse (factoring e anticipo fatture, non a caso stabili anno su anno) e che potrebbe beneficiare di servizi e piattaforme alternative.
Il problema, se così si può chiamare, è anche di tipo informativo: dall’indagine del Politecnico emerge come le piccole e medie imprese italiane esprimano una forte necessità di trovare nuove soluzioni di finanziamento, ma siano al tempo stesso poco consapevoli delle opportunità offerte dal supply chain finance. In uno scenario che le vede fare i conti con un ciclo di cassa molto lungo (103 giorni in media) e che le espone e una notevole vulnerabilità finanziaria, la velocità, flessibilità e l’assenza di segnalazioni in centrale rischi di strumenti come l’invoice trading offerto da piattaforme come CashMe possono venire in aiuto, soprattutto per chi è a corto di liquidità e non ha tempo di aspettare una risposta dai fornitori di servizi finanziari che non hanno saputo adeguarsi alle nuove esigenze.
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Regole più stringenti per i capitali delle banche, riduzione degli sportelli sul territorio, calo dei prestiti che non accenna a diminuire (-3,7% quelli alle società non finanziarie a dicembre 2023 secondo i dati di Bankitalia), con i tassi di interesse che risultano addirittura quadruplicati in due anni.
Secondo il Centro Studi di Unimpresa, infatti, la fiammata dei tassi ha portato a una crescita dei costi del credito erogato alle imprese dall’1,28% di gennaio 2022 al 5,48% del gennaio 2024, con un crollo di quasi 45 miliardi di euro di stock dei finanziamenti delle banche alle aziende. Manca, quindi, la liquidità necessaria tanto per gli investimenti quanto per la gestione dell’ordinaria amministrazione.
Non è un caso che, in questo scenario, la Commissione Europea abbia di recente dato il via libera all’Italia per un regime di aiuti di Stato dell’ordine di 750 milioni di euro volti a garantire l’accesso al credito delle PMi e delle società a media capitalizzazione. Aiuti che, nel dettaglio, dovrebbero assumere la forma di vere e proprie garanzie statali per quelle aziende colpite in particolar modo dalla crisi energetica, ma che non saranno sufficienti da soli a invertire una chiara tendenza che vede le piccole e medie imprese sempre più marginalizzate nella geografia del credito nazionale.
Lo scenario generale ci parla infatti di un “credit crunch” ormai culturale, ancor prima che di ordine finanziario, dove le banche, costrette da requisiti sempre più stringenti di capitale, non possono più essere l’unico partner finanziario di una PMI. Quest’ultima deve essere in condizioni di poter diversificare le proprie fonti di finanziamento tanto per poter accedere a condizioni migliori quanto per non dipendere da uno scenario complesso e difficilmente prevedibile nelle sue infinite variabili, come può essere il persistere dell’inflazione e le sue conseguenze sull’atteso taglio dei tassi.
In questo contesto, le opportunità non mancano per ricorrere a canali di finanza alternativa capaci di rispondere in maniera strutturata e diversificata alle esigenze delle piccole e medie imprese: sia attraverso la raccolta di finanziamenti a breve e medio termine tramite il p2p lending o il crowdfunding, sia attraverso l’accesso alla liquidità tramite la cessione dei crediti commerciali con piattaforme di invoice trading quali CashMe, senza richiesta di ulteriori garanzie né segnalazioni in centrale rischi, potendo contare sulla velocità offerta dalle moderne tecnologie digitali.
L’utilizzo di canali di finanza alternativa deve intendersi, in questo senso, non come uno strumento capace di sostituirsi in toto al canale bancario – non lo consentono i volumi, né la disponibilità finanziaria della maggior parte degli intermediari – ma piuttosto come uno strumento complementare alle banche, per sedersi al tavolo negoziale con queste ultime da una posizione di maggiore forza. Nel caso dell’invoice trading, infatti, la cessione dei crediti pro-soluto non comporta ulteriore passivo nel bilancio e consente in prospettiva di migliorare il proprio rating bancario, favorendo quindi quell’accesso al credito che la dipendenza troppo stretta da un unico istituto paradossalmente oggi rende così complicato ottenere.
622 startup fintech e insurtech registrate a fine 2023, in lievissimo calo rispetto all’anno precedente, capaci di raccogliere risorse per oltre 174 milioni di euro, in calo dell’81% rispetto al 2022, pur a fronte di una ripresa nell’ultimo trimestre e in linea con i trend globali di settore. Un’azienda su tre dichiara ricavi in crescita del 60% rispetto all’anno precedente, ma con persistenti difficoltà di internazionalizzazione dell’offerta e raccolta di capitali da parte di investitori esteri.
L’importanza della collaborazione con banche e aziende da parte delle fintech
È un quadro a forti tinte chiaroscure quello che emerge dall’ultimo report dell’Osservatorio Fintech & Insurtech della School of Management del Politecnico di Milano, che sottolinea la crescente propensione da parte delle istituzioni finanziarie e dei consumatori verso l’utilizzo di canali finanziari digitali, soprattutto mobile, e l’importanza assunta dalla collaborazione con partner finanziari e commerciali per il successo delle soluzioni fintech più innovative.
Una startup fintech e insurtech su due ha pianificato un round di investimento nel 2024
Non è un caso, infatti, che oltre otto startup su dieci stiano già collaborando con almeno un partner strategico, e che nel 33% dei casi i partner siano diventati anche investitori delle startup stesse. Quanto ai finanziamenti, il 46% delle startup dichiara di avere già un round pianificato nei prossimi mesi, di cui un quarto in chiusura, segnale di una possibile inversione di tendenza rispetto al calo del 2023 e alla ferma intenzione (e necessità) di aumentare le spese in ricerca, sviluppo ed espansione commerciale.
Cresce la propensione delle PMI all’utilizzo dei servizi online
Per quanto riguarda i clienti finali, spicca dal nostro punto di vista l’evoluzione dell’approccio delle piccole e medie imprese all’utilizzo dei canali online: il 36% del campione di PMI e microimprese intervistate dagli autori del report ha già richiesto un prestito utilizzando i canali digitali, mentre rimane molto alta la fiducia nei confronti delle banche (93%). Competenza e consulenza personalizzata si confermano come le caratteristiche più apprezzate, che il digitale può rendere ancora più pervasive e distintive.
Non è un caso, in questo contesto, che il titolo del convegno di presentazione dei risultati dell’Osservatorio fosse “oltre le buzzword”. La spiegazione proviene dallo stesso Marco Giorgino, Responsabile scientifico: “per costruire il futuro del Fintech & Insurtech oggi è fondamentale andare oltre le buzzword: concetti come sostenibilità, ecosistema e valore dei dati devono diventare azioni tangibili in cui riuscire a generare impatto. Le startup Fintech & Insurtech, specialmente in Italia, manifestano una tensione tra una maturità crescente e le difficoltà del contesto macroeconomico, evidenziando la necessità di costruire iniziative di sistema”. Solo il tempo dirà se questa necessità si tradurrà in qualcosa di più concreto.
L’oggetto del contendere è la Direttiva 2011/11 EU (Late Payment Directive), ritenuta insufficiente e inadeguata dal punto di vista delle misure preventive e dei deterrenti contro la pratica – diffusa e trasversale, ma particolarmente nociva per la salute finanziaria delle PMI – dei pagamenti in ritardo.
Il futuro, per il momento solo allo stato di proposta, è quello di definire per legge un limite massimo di 30 giorni per i pagamenti di tutte le transazioni commerciali verso le aziende e la Pubblica Amministrazione, con l’aggiunta di un pagamento automatico degli interessi maturati, delle commissioni di compensazione, e misure di esecuzione e ricorso per tutelare le aziende, soprattutto le più fragili e di dimensioni minori.
La proposta di Regolamento, presentata dalla Commissione Ue, dovrebbe quindi prendere il posto della direttiva 2011 che prevedeva un’estensione di 60 giorni o più dei tempi di pagamento secondo l’ambigua formula del “gravemente ingiusto nei confronti del creditore”. Una formulazione che ha portato molti debitori a prolungare oltre misura i tempi dei bonifici, soprattutto se in una posizione di forza contrattuale.
La prospettiva, secondo i calcoli della stessa Commissione riportati da Italia Oggi, è quella di aumentare fino allo 0,9% i flussi di cassa aggregati delle imprese nell’Ue per ogni giorno di riduzione dei ritardi dei tempi di pagamento, e un risparmio fino a 158 milioni di euro totali in termini di costi di finanziamento.
Eppure, come fa notare Vittorio Giustiniani, Responsabile Servizio Governo Societario di BPER Factor S.P.A nel suo articolo pubblicato recentemente su Fact & News, non è detto che la riduzione generalizzata dei termini di pagamento a 30 giorni sia davvero la “soluzione” definitiva al problema: non sempre le imprese di dimensioni maggiori pagano in ritardo per conseguire finanziamenti senza costi, non sempre la limitazione obbligatoria per legge porta effettivamente a una automatica riduzione dei ritardi.
Allo stesso modo, siamo d’accordo con quanto scrive il dottor Giustiniani in merito alla necessità di un emendamento della proposta di Regolamento che vieti le clausole sul divieto di cessione dei crediti: clausole che potrebbero andare a svantaggio delle parti contrattuali più deboli, che non potrebbero in questo modo ottenere liquidità immediata dalla cessione dei crediti commerciali tramite servizi di factoring e invoice trading, utili soprattutto quando l’azienda ceduta si mantiene in uno stato di solvibilità.
Tenendosi lontani dai facili entusiasmi, e in attesa dell’esito delle consultazioni dei prossimi mesi, è quindi importante monitorare da vicino l’esito dei negoziati e del testo di Regolamento finale: sia perché la proposta europea arriva in un momento cruciale caratterizzato da elevati costi di finanziamento e da un rallentamento della nostra economia, sia perché essa potrebbe imprimere innanzitutto una decisiva svolta culturale verso una cattiva pratica che ha penalizzato per anni le possibilità di sviluppo delle aziende in generale e delle PMI in particolare.
La crescita prosegue, eccome se prosegue: nei primi sette mesi del 2023 il mercato del factoring italiano si dimostra ancora in salute, complice l’aumento dei tassi sui prestiti alle imprese e un contesto generale che sembra tendere sempre più verso il temuto “credit crunch”. Secondo i dati Assifact, infatti, il turnover avrebbe raggiunto quota 162 miliardi di euro, in aumento dell’1,16% rispetto all’anno precedente, pur a fronte di una lieve decrescita dell’1,89% delle anticipazioni erogate nello stesso periodo di tempo.
I primi dieci operatori per turnover del factoring italiano
Dal punto di vista delle singole società, non sorprende il primato di Intesa Sanpaolo con 44 miliardi di euro di turnover, seguita a distanza da Unicredit Factoring con 31 miliardi e Ifitalia con 18 miliardi. Seguono nelle prime dieci posizioni – secondo i dati elaborati dall’associazione di categoria – Factorit (10,3 miliardi di euro), Banca Ifis (7,8 miliardi di euro), MBFacta (6,9 miliardi), Fidis (5,3 miliardi), Credit Agricole Eurofactor (5,2 miliardi), BPER Factor (5 miliardi), Sg Factoring (3,9 miliardi), Monte dei Paschi di Siena (3,2 miliardi).
La predominanza del factoring pro soluto rispetto a quello pro solvendo
A far la parte del leone, come sempre, le operazioni di factoring pro soluto, che hanno raggiunto un turnover cumulativo di oltre 128 miliardi di euro, sfiorando l’80% del totale. Quindici milioni gli euro sono i volumi generati, invece, da operazioni di Supply Chain Finance. In qualità di canale complementare e alternativo a quello bancario, il factoring si conferma quindi essere uno strumento utile a sostenere le imprese in difficoltà finanziaria ma dai fondamentali solidi e con forti prospettive di rilancio, grazie alla possibilità di ottenere liquidità senza essere vincolati dalle stringenti regole europee e del sistema bancario.
L’invoice trading quale strumento complementare sia al factoring, sia ai prestiti bancari
Se il factoring è complementare ai prestiti bancari, l’invoice trading può infine essere a ragione definito uno strumento complementare all’uno e all’altro canale di finanziamento. Malgrado i volumi del settore non siano ancora paragonabili a quelli del factoring, nonostante una crescita in doppia cifra anno su anno, l’invoice trading consente infatti la cessione pro-soluto delle fatture commerciali in maniera più veloce rispetto al factoring (solitamente, meno di 48 ore su una piattaforma come CashMe) ma soprattutto fornisce alle imprese la possibilità di scegliere quali fatture cedere in cambio di liquidità, senza essere eccessivamente vincolati dalla cessione in blocco solitamente richiesta dagli accordi con i tradizionali factor.
Factoring e invoice trading per finanziare l’impresa senza incorrere nell’indebitamento
Pur a fronte di una situazione generale del mercato del credito caratterizzata da un trend ascendente dei tassi, e da una crescente prudenza da parte delle banche ad erogare nuovi prestiti – soprattutto nei confronti delle PMI – non si può pertanto ignorare come abitudini, comportamenti e strategie delle aziende stiano cambiando in corso d’opera: pur in un Paese tradizionalmente “bancocentrico” come l’Italia, cresce infatti la quota di imprenditori e di CFO in grado di diversificare le forme di finanziamento dell’impresa e di generare capitale circolante da strumenti alternativi al canale bancario, senza indebitarsi ulteriormente ma cogliendo per tempo le opportunità migliori sul mercato. Che si tratti di factoring, di invoice trading, o di altre soluzioni rese possibile tanto dalla tecnologia quanto dall’intuizione dei loro protagonisti.
La crescita ininterrotta dei tassi di interesse della banca centrale, le nuove regolamentazioni del settore bancario, la residua disponibilità di liquidità in cassa: queste sono le tre possibili cause all’origine dell’ultima “gelata” dei prestiti del settore bancario alle aziende, che ha portato il nostro Paese all’ultimo posto in Europa per due mesi consecutivi per quanto riguarda l’erogazione di finanziamenti.
Meno prestiti, meno investimenti: il rischio credit crunch per le PMI
Quale che sia la causa, è un dato di fatto che a luglio 2023 il credito alle imprese abbia registrato l’ennesimo calo su base annua del 3,7, rafforzando ulteriormente la frenata del 2,7% già fatta intravvedere a giugno. Eppure, a livello europeo, il problema sembra essere ampiamente sotto controllo, con una crescita del 2,2% trainata soprattutto dai risultati di Germania e Francia (rispettivamente + 5% e +4,6%).
Il calo dei prestiti alle imprese va di pari passo, come spesso accade in questi contesti, con il calo della fiducia: ad agosto, l’indice della fiducia è sceso ai minimi da novembre 2022 (106,8 rispetto al precedente 108,9) a fronte di una sostanziale stabilità della fiducia dei consumatori. In calo dello 0,6% anche il fatturato dell’industria nel secondo trimestre 2023, secondo gli ultimi dati resi disponibili dall’Istat.
Che la flessione dei prestiti alle imprese sia determinata più dalla domanda che dall’offerta è materia oggetto di dibattito, ma che poco cambia alle previsioni di medio periodo. Minori prestiti significano anche meno investimenti, e non vi sono segnali che la tendenza possa invertirsi a breve a fronte di un ulteriore inasprimento dei criteri di accesso al credito in un Paese dominato dalla presenza di PMI, sottocapitalizzate rispetto alle imprese di dimensioni maggiori e di conseguenza soggette a un rating solitamente inferiore.
L’anticipo fatture veloce con l’invoice trading per sbloccare subito la liquidità
Non mancano tuttavia, a fronte di questa logica implacabile, strumenti di finanziamento alternativo con cui compensare anche solo momentaneamente il venir meno dei prestiti bancari a condizioni favorevoli: un esempio in questo senso viene dall’invoice trading online, che fornisce un anticipo fatture immediato alle piccole e medie aziende in crisi di liquidità senza la richiesta di ulteriori garanzie. L’invoice trading su piattaforme come CashMe, infatti, consente di cedere i propri crediti commerciali in forma pro-soluto a investitori istituzionali qualificati, senza generare indebitamento a differenza di quello che avviene nell’anticipo fatture “tradizionale” di impronta bancaria.
L’invoice trading, in particolare, si rivela una soluzione particolarmente utile in un Paese come l’Italia dove i tempi di pagamento delle aziende risultano essere in peggioramento anno su anno, come emerso dallo Studio Pagamenti di Cribis. Riduzione del credito e allungamento dei tempi di pagamento possono generare conseguenze negative per la salute finanziaria di un’azienda, compromettendo ulteriormente il suo rating bancario e le sue possibilità di ottenere accesso al credito in futuro quando i tassi ricominceranno a scendere: la cessione pro-soluto delle fatture consente infatti di sbloccare liquidità entro breve tempo, alimentando i flussi di cassa e trasferendo interamente il rischio di insolvenza all’acquirente.
Non sei ancora cliente CashMe?
Non le banche, né altri intermediari finanziari tradizionali sono stati in grado di soddisfare fin qui il fabbisogno di liquidità delle imprese, soprattutto in un contesto generale segnato da una contrazione dei prestiti alle aziende piccole e medie dell’ordine del 2,3% anno su anno, come rilevato dai dati elaborati dall’investment bank Jefferies e ripresi in un nostro precedente articolo.
Il ruolo del factoring nel sostegno alle aziende vincolate da maggiori vincoli finanziari
È il factoring, nello specifico quello che prevede la cessione pro-soluto dei crediti commerciali, uno dei migliori alleati delle aziende che necessitano di liquidità immediata e che non possono o non vogliono ricorrere all’indebitamento bancario, preferendo finanziarsi per linee interne.
Ma perché il factoring è così richiesto? Negli ultimi tempi è apparso sempre più evidente il ruolo di educazione finanziaria svolto da associazioni come Assifact, il sostegno fornito dai media specializzati e della stessa Banca d’Italia, che come riportato da Italia Oggi ne ha elogiato i benefici soprattutto per quelle piccole e medie imprese caratterizzate più di altre da maggiori vincoli finanziari.
Il riconoscimento, nello specifico, è arrivato per voce della vice direttrice generale della Banca d’Italia, Alessandra Perazzelli, in occasione della assemblea di Assifact durante la quale la massima dirigente ha sottolineato il sostegno portato dai factor al sistema imprenditoriale italiano, altrimenti preso nella doppia morsa dell’innalzamento dei tassi di interesse e dell’irrigidimento delle regole di sistema.
In un contesto in cui la maggior parte delle operazioni di factoring avviene tramite operazioni pro-soluto, che quindi liberano del tutto l’azienda cedente i crediti commerciali da ogni possibile rischio legato alla riscossione di questi ultimi, è evidente come il factoring possa essere oggi affiancato da strumenti in parte simili e in parte diversi come l’invoice trading, fornito da piattaforme specializzate quali CashMe.
Più flessibile, più veloce: il ruolo dell’invoice trading quale strumento complementare al factoring
Rispetto al factoring, l’invoice trading offre infatti una maggiore flessibilità nella scelta delle fatture da cedere e tempi di attivazione delle pratiche solitamente più immediati, in virtù dell’uso di tecnologie digitali che rendono più semplice il processo di registrazione delle imprese e la cessione delle prime fatture.
In questo senso, è possibile affermare che se il factoring rappresenta oggi uno strumento ideale per sostenere le imprese in temporanea difficoltà finanziaria, svolgendo un ruolo di supplenza e di complementarietà rispetto alle banche, l’invoice trading rappresenta uno strumento complementare per quelle imprese che vogliono svincolarsi da un rapporto troppo stretto e ingessato con un singolo fornitore di servizi di factoring, decidendo in autonomia tempi, modalità e tipologia delle fatture da cedere.
Le soluzioni, ovviamente, non si fermano a questa pur efficace triangolazione. Resta, tuttavia, ancora molto lavoro da fare per rendere consapevoli gli imprenditori di come la gestione della liquidità e dell’accesso a quest’ultima possa essere gestito in maniera differente rispetto al passato, utilizzando una molteplicità di servizi che – se hanno il “difetto” di non poter sostituirsi in toto al canale bancario – hanno comunque il vantaggio di fornire maggiore respiro ad aziende già indebitate, e una maggiore forza negoziale ad aziende dai fondamentali solidi e che attraversano una temporanea fase di criticità.
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