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Parola d’ordine crescita: CashMe chiude il proprio anno solare con una serie di numeri estremamente positivi. Specializzata in invoice trading per le imprese tramite cessione del credito commerciale pro soluto e parte integrante del Gruppo Finservice S.p.A., registra una crescita di fatturato del 250% rispetto all’anno precedente, un incremento di oltre 200 milioni di euro dei volumi di transato ed un EBITDA pari al 56%. Nel corso del 2022 l’impresa, presente con sedi fisiche a Mantova e Milano, ha consolidato la propria posizione nel campo della supply chain finance, puntando sul servizio di reverse digitale per le aziende capo-filiera al fine di consentire loro di sostenere i propri fornitori tramite la cessione pro soluto delle fatture.

I traguardi tagliati di recente non frenano la nostra ambizione – afferma Marcello Scalmati, CEO di CashMe – Nel corso dell’anno corrente prevediamo di sviluppare ulteriormente la linea di servizi per le banche con l’obiettivo di fornire agli istituti finanziari nuovi strumenti digitali di ultima generazione. Entrando più nello specifico, questi sistemi dovranno essere in grado di coniugare rapidità, meno burocrazia e una predisposizione all’ondata di cambiamento prodotta dal fintech. E non è finita qui perché il 2023 segna anche l’inizio del processo di crescita per linee esterne tramite acquisizioni di altri operatori di mercato”. Ma non è tutto perché CashMe è l’unica azienda del proprio settore ad utilizzare un modello operativo phygital.

Questo prende forma, in primo luogo, grazie ad un’innovativa piattaforma digitale di invoice trading che offre l’opportunità ad imprese di tutte le dimensioni di cedere i crediti commerciali verso investitori istituzionali in maniera pro-soluto e senza segnalazione in centrale rischi. Questa digital platform viene affiancata, anzi arricchita dalla professionalità di consulenti in carne ed ossa. Qui entra in gioco Gruppo Finservice S.p.A., organizzazione specializzata in consulenze di finanza agevolata, di cui CashMe fa parte da ben quattro anni. “Siamo un’azienda molto attenta ai trend e alla digitalizzazione – dichiara Guido Rovesta, presidente di Gruppo Finservice S.p.A. – E proprio per questo siamo al fianco di CashMe e della piattaforma messa da loro a disposizione attraverso il nostro centro di sviluppo tecnologico. Stiamo vivendo nel presente con la velocità del futuro e la velocità è la prima necessità delle imprese nel reperimento di risorse finanziarie.”

Dagli 820 milioni di euro in meno delle imprese attive in Veneto ai 214 milioni di euro in meno di quelle localizzate in Liguria: sono queste le due regioni che hanno subito le contrazioni più marcate e rilevanti dei prestiti bancari alle Piccole e Medie imprese italiane tra il 2021 e il 2022, secondo quanto emerge dall’ultima elaborazione dell’Ufficio studi della Cgia di Mestre.

Nel dettaglio, il volume dei prestiti bancari alle PMI si è ridotto nell’arco di poco più di un anno di oltre 5,3 miliardi di euro, in calo da 124 a 118,7 miliardi di euro ottenuti in prestito nel periodo precedente da parte delle aziende con meno di 20 addetti. Al triste “primato” di Veneto e Umbria si aggiungono inoltre Friuli Venezia Giulia (-177,8 milioni) e Liguria (-214,4 milioni di euro).

A livello di singole province, non da ultimo, la situazione appare essere molto più diversificata, con il calo maggiore subito da Sondrio in termini percentuali (-8,32%, pari a 59,8 milioni di euro) e da Venezia in termini di volumi (-173,8 milioni, a fronte di un calo di “soli” 7 punti percentuali). Biella, Caltanissetta, Sassari, Sud Sardegna e Nuoro le uniche province in attivo, seppur di poco.

Le richieste delle PMI alle banche, tuttavia, da tempo non riguardano più solo la disponibilità di maggiori linee di credito. Secondo uno studio realizzato da b-ilty di Gruppo Illimity, infatti, le aziende di dimensioni minori si aspettano di ricevere dalle banche una risposta puntuale, veloce e trasparente alle proprie richieste, attraverso canali digitali o ibridi di contatto e che sappiano valorizzare il fattore umano. Liquidità si, dunque, ma anche servizi innovativi e capaci di far risparmiare tempo ancor prima che denaro.

Flessibilità, personalizzazione, contatto umano: non a caso queste caratteristiche di servizio sono quelle fatte proprie da aziende fintech come CashMe SpA, che offre un servizio di invoice trading e digital reverse basato sull’utilizzo di una piattaforma tecnologica e sulla presenza costante di consulenti dedicati per tutte le esigenze di finanziamento del capitale circolante. Una scelta precisa, compiuta fin dall’inizio, che oggi si rivela essere tanto più importante quanto più gli istituti di credito tradizionale tendono a ritirarsi dal loro ruolo tradizionale di supporto all’economia reale in quasi tutti i territori italiani.

In un contesto di generale rafforzamento dei criteri di valutazione del rating aziendale imposto dagli organismi di controllo, di crescita dei tassi di interesse e di innalzamento dei capitali di vigilanza per le banche più a rischio, non vi è da sorprendersi che le prospettive per il mercato del credito nei prossimi mesi possano rivelarsi ancora eccessivamente ottimistiche. Per questi motivi è importante per gli imprenditori, soprattutto quelli delle aziende piccole e medie, iniziare fin da subito a esplorare canali di finanziamento alternativi, soprattutto se si trovano in quelle regioni o province più penalizzate di altre.

Era Il 2% nel 2021, è aumentato al 2,3% nel 2022 e nel 2023 potrebbe quasi raddoppiare arrivando fino al 2,3% del totale: è questo il tasso di deterioramento delle aziende italiane secondo l’Outlook Abi-Cerved sulle stime dei flussi dei nuovi crediti deteriorati delle imprese.

Il peggioramento, innescato dall’indebolimento della domanda e dai rincari sempre più urgenti delle materie prime e dell’energia, era atteso da tempo ma solo ora è arrivata la conferma: dopo dieci anni i crediti deteriorati tornano a salire, e questa tendenza non accenna a invertirsi.

L’accelerazione, in particolare, ha riguardato il secondo semestre del 2022 con un deterioramento del credito stimato a un valore medio del 2,52%, in aumento rispetto ai dati comunicati dalla Banca d’Italia a fine giugno dell’anno precedente e con una tendenza in accelerazione.

“I dati consolidati del 2021 – si legge nel report – segnano il primo aumento su base annuale dell’importo di nuovi prestiti in default originati da crediti a imprese dal 2013. Per il 2023 si prevede un incremento del tasso di deterioramento del credito alle imprese del 3,8%, un livello che non si raggiungeva dal 2017“.

Se è vero che questi dati restano abissalmente lontani dai picchi raggiunti in occasione della crisi sovrana, e sono previsti comunque in discesa nel corso del 2024, nondimeno la notizia rimane quella di un’inversione di tendenza che nel corso dell’ultimo anno si è fatta sentire per prima sulle spalle delle microimprese, il comparto con il maggior tasso di deterioramento dei crediti.

Nel 2024, si legge sempre nel report, toccherà alle costruzioni essere il comparto con il tasso di deterioramento più elevato, seppur minore rispetto al periodo pre-Covid e con l’ausilio da non sottovalutare degli investimenti previsti dal PNRR per far fronte alla crisi, mentre l’industria sarà il comparto meno colpito dalla tendenza in atto.

L’impatto sull’economia? “Moderato“, secondo gli autori del report, in virtù di una maggiore capacità del mercato del credito di far fronte alle crisi e gestire i volumi di NPL, e della possibilità per le aziende di ricorrere a strumenti di finanza alternativa capaci di compensare il venir meno dei prestiti bancari, soprattutto in periodi dove maggiore è lo stress finanziario.

Quattro imprese su dieci: questa è la percentuale del campione di piccole e medie aziende italiane che, nel corso del 2022, hanno avviato un percorso di transizione sostenibile secondo gli ultimi dati del Kaleidos Impact Watch. Entro il 2024, secondo la medesima fonte, oltre la metà delle PMI avrà effettuato almeno un investimento in sostenibilità ambientale (dalla transizione verso energie pulite e rinnovabili alla riduzione o riutilizzo di rifiuti e scarti di lavorazione). Oltre il 95% delle aziende intervistate ha dichiarato di aver già ottenuto benefici da questo processo.

A fronte di dati così evidenti, tuttavia, rimane l’incognita che grava sul futuro di tutte le altre imprese: in un Paese come il nostro caratterizzato da un tessuto imprenditoriale di dimensioni aziendali relativamente contenute, non sono pochi i motivi che possono frenare un imprenditore e il suo team rispetto alla scelta di intraprendere un percorso virtuoso, che tuttavia richiede un certo investimento iniziale per essere avviato, soprattutto dopo che quest’ultimo è stato rimandato per anni.

Come affermato da Emanuela De Sabato, presidente e fondatore di Futura Law Firm e valutatrice d’impatto in un lungo e interessante post su LinkedIn, a volte non sono sufficienti tutti i discorsi e i numeri sulla sostenibilità per far compiere quel passo in più alle aziende di dimensioni più contenute. “Di fronte alle iniziative e alle svolte dei giganti – afferma l’autrice del post – non so come una piccola impresa possa identificarsi e sentire di avere gli strumenti adeguati“. Il problema, secondo l’esperta, non sarebbe tanto la mancanza di risorse economiche quanto la convinzione di non avere né il tempo, né le risorse umane sufficienti da dedicare al cambio di rotta.

A convincere molti imprenditori, secondo noi, non sarà tuttavia solo la tendenza a imitare i comportamenti dei propri simili, né massicce campagne di sensibilizzazione, quanto la consapevolezza che le pressioni che subiranno da qui ai prossimi anni per intraprendere un percorso sostenibile saranno tante e tali da farli rimpiangere di non averlo fatto prima: se la regolamentazione fino ad oggi è stata benevola nei confronti delle aziende di dimensioni minori non è detto che sarà lo stesso anche in futuro, i clienti si aspetteranno iniziative e azioni concrete di sostenibilità e le aziende capofiliera utilizzeranno tutto il proprio soft power per convincere le aziende fornitrici ad adeguarsi a standard qualitativi e sostenibili sempre più alti. Infine, il mondo del credito darà la “spinta” decisiva.

Come ricordato da Marco Preti, CEO di Cribis, in un articolo per Econopoly, le modalità di gestione del rischio del credito stanno rapidamente cambiando: “oggi è imprescindibile considerare i rischi ESG delle imprese, non solo nel breve ma anche a medio e lungo termine. Ormai è acclarato che questi elementi impatteranno in modo determinante sulla redditività delle imprese e quindi sulla loro capacità di rimborsare il debito“, scrive l’esperto, che ricorda anche come la rischiosità creditizia di un’impresa a forte vocazione sostenibile risulti inferiore del 50% rispetto alla media. Un numero che influenzerà nei prossimi anni in maniera decisiva le decisioni delle banche in merito alla concessione o meno dei crediti richiesti dagli imprenditori. In questo senso, il mondo bancario svolgerà con ogni probabilità un ruolo decisivo nel sensibilizzare gli imprenditori, anche i più reticenti, a compiere un passo di importanza fondamentale sia per la propria azienda, sia per il futuro dell’ambiente e della società in cui vivono.

Enel, Eni, Ferrari, Fs, Generali, Marcegaglia Steel, Pirelli, Poste Italiane, Unicredit, Webuild, ma anche le principali PMI globali dell’industria, della finanza, dei servizi: sono questi i protagonisti della classifica dei “200 leader della sostenibilità” realizzata annualmente dal Sole 24 Ore e dalla società di analisi Statista, che dimostra come né la pandemia né la guerra in corso abbiano invertito il cammino verso la sostenibilità attraverso obiettivi e iniziative concrete.

Rispetto alla prima edizione, ora sono sempre di più le aziende e le PMI sostenibili e trasparenti

Rispetto alla prima edizione risalente al 2021, il report fotografa ora una situazione in cui quasi tutte le grandi aziende e le principali PMI hanno intrapreso politiche di sostenibilità complete, trasparenti e con chiaro riferimento ai 17 obiettivi ONU di sviluppo sostenibile da raggiungere entro la fine del decennio. Elemento ancora più importante, in questo contesto, il fatto che molte delle aziende prese in esame abbiano cominciato a includere le performance ESG nei cosiddetti Rapporti di sostenibilità, o nelle Dichiarazioni non finanziarie allegate al bilancio o nei bilanci integrati.

In questo senso, è importante sottolineare come la compliance normativa – ovvero l’obbligo di rendicontare le attività sostenibili – sia al momento obbligatoria solo per le grandi aziende. Sorprende in positivo, quindi, che le PMI più importanti a livello globale siano già impegnate da mesi a rendicontare le proprie iniziative in tal senso senza alcun intervento esterno: un’intuizione che potrebbe rivelarsi proficua sia nell’immediato, sia ancor più nel lungo periodo. Crisi di mercato dei prodotti e dei metodi di produzione tradizionali, richieste da parte dei clienti e dei consumatori e passaggio generazionale hanno indotto questo cambio, di mentalità ancor prima che di organizzazione.

Quante sono le PMI davvero pronte ad abbracciare il cambiamento?

Si pone, a questo punto, la domanda che né i report attuali né probabilmente quelli futuri riusciranno a risolvere: fino a che punto le PMI di ogni ordine e grado, escluse dai radar dei ricercatori o troppo impegnate a concentrarsi sul business per rispondere a questo tipo di sollecitazioni, hanno colto il vento del cambiamento e si stanno impegnando fin d’ora ad adeguarsi alla trasformazione in atto? Il report del Sole 24 Ore e di Statista, infatti, è solo l’ultimo segnale di quanto la sostenibilità sia diventata fondamentale nei rapporti con i clienti come con i fornitori, nelle relazioni con le comunità come con gli enti regolatori. Seguire l’esempio delle aziende “leader”, soprattutto di quelle simili per settore e dimensioni, diventa a questo punto una scelta strategica capace di assicurare la continuità della propria azienda nel lungo periodo: fino a che punto le “altre” PMI sono davvero pronte a farlo?

In attesa che entri nel vivo il dibattito sul potenziale Energy Recovery Fund, che venga fissato un tetto al prezzo del gas, che i meccanismi e le regole di formazione del prezzo dell’elettricità vengano revisionati e i crediti d’imposta ulteriormente potenziati, resta l’amara realtà: sempre più piccole e medie imprese faticano a far quadrare i bilanci, a causa dell’impennata dei costi delle bollette.

Centinaia di migliaia di PMI a rischio per il caro bollette, milioni di posti di lavoro in bilico

Secondo Confartigianato sarebbero infatti 881 mila le piccole e medie imprese a rischio a causa del caro bollette, per un totale di 3,5 milioni di posti di lavoro potenzialmente in pericolo su un totale di 43 settori diversi. La regione più esposta è, a sorpresa, la Lombardia, con 139 mila aziende e 751 mila addetti a rischio, seguita da Veneto ed Emilia-Romagna.

Secondo Confcommercio, sarebbero oltre 120 mila le piccole e medie imprese del solo terziario a rischio, con una perdita potenziale di oltre 370 mila posti di lavoro (senza tener conto delle imprese più grandi). Ragionando in termini percentuali, inoltre, il totale delle PMI non in grado di pagare le bollette da qui al termine dell’anno potrebbe sfiorare il 30% del totale secondo le ultime analisi della Cgia di Mestre.

Un continuo “drenaggio” di risorse che va a intaccare la liquidità disponibile in cassa

Di tutte le ricerche disponibili, quella che fotografa con più lucidità la realtà ci sembra essere tuttavia quella di Confesercenti. Secondo quest’ultima, relativa alle sole imprese del commercio e del turismo ma valida anche per molti altri settori, la spesa che le aziende di settore dovranno sostenere nel 2022 a causa del caro energia sarà pari a 15 miliardi di euro rispetto agli 1,7 miliardi raggiunti nel non lontano 2019.

Un vero e proprio “drenaggio” di risorse che va a intaccare la liquidità disponibile in cassa, con conseguenza finora inimmaginabili per via di un possibile “effetto domino” verso famiglie, imprese, occupazione e consumi. Un’emergenza che attende da diverse settimane l’arrivo di una delle tante soluzioni fin qui prospettate, nella speranza che la combinazione di più di una di esse possa offrire alle aziende oggi in difficoltà un’opportunità per oltrepassare il momento più difficile e guardare con ottimismo al futuro.

Due anni, e poco più: tanto è durata l’inversione di tendenza nelle possibilità di accesso al credito da parte delle PMI italiane, dopo quasi dieci anni di progressiva contrazione. Tra il 2020 e il 2021 le PMI del nostro Paese hanno potuto beneficiare di migliori condizioni di accesso al credito, con una crescita del 15% delle aziende con disponibilità di accesso a prestiti bancari (rispetto a una media europea ferma al 4%), un calo del 12% dei tassi di interesse e un aumento del 10% dei prestiti totali disponibili.

La crescita delle possibilità di accesso al credito è venuta meno con la fine dei sostegni pubblici

I dati, elaborati da un articolo de LaVoce a partire dall’ultima “Survey on the Access to Finance of Enteprises” della Commissione Europea, dimostrano – più che l’importanza dei comunque ottimi risultati raggiunti con la messa a disposizione di garanzie pubbliche e moratorie sui prestiti – fino a che punto le possibilità di accesso al credito da parte delle micro, piccole e medie imprese italiane si fossero ridotte in maniera drastica nel corso degli ultimi anni.

Una condizione di scarsità che, purtroppo per molti, sembra essere destinata a diventare di nuovo la norma nei prossimi mesi: sempre secondo i numeri elaborati dalla stessa fonte, questa volta su dati Ocse (“Financing SMEs and Entrepreneurs 2022: An OECD Scoreboard”), i piani di ripresa per il dopo pandemia assegnano solo il 2,2% delle risorse totali alle PMI rispetto al 25% raggiunto dai finanziamenti allocati con le misure emergenziali, queste ultime venute per lo più a esaurimento nel corso dell’ultimo anno.

Risorse sempre più risicate, che la finanza alternativa può in parte compensare o stimolare

In uno scenario di risorse sempre più risicate, quindi, che potrebbero non essere sufficienti a garantire la sopravvivenza di molte imprese né tantomeno ad accompagnare quelle più sane nel processo di trasformazione in chiave digitale, ecologica e di competenze possedute dai lavoratori, è importante sottolineare il ruolo che la finanza alternativa può assumere per fornire liquidità alle aziende e, soprattutto, consentire a queste ultime di migliorare la propria posizione negoziale nei confronti delle banche.

Servizi di invoice trading e di reverse digitale, come quelli forniti da CashMe a piccole e medie imprese in tutta Italia senza necessità di garanzie né di segnalazioni in centrale rischi, diventano infatti in questo momento tanto più importanti quanto più le aziende necessitano di finanziare il proprio capitale circolante (o quello dei propri fornitori) senza avere né l’interesse, né tantomeno la possibilità di contrarre nuovo debito. Con la cessione pro soluto su CashMe, infatti, le aziende migliorano il proprio bilancio e il proprio rating, acquisendo la possibilità di ottenere condizioni migliori di accesso ai prestiti in futuro: numeri forse ancora piccoli per le statistiche Ocse, ma che tuttavia fanno ben sperare.


Unicredit Factor per distacco, seguita a distanza da Credemfactor, Credit Agricole Eurofactor, FactorCoop, Aostafactor, Serfactoring e Generalfinance: sono queste le aziende di factoring più importanti in Italia per fatturato, secondo quanto riportato da un approfondimento curato da TrueNumbers e riguardante le analisi dei bilanci dei singoli fornitori di servizi di factoring.

Il mercato del factoring cresce ma è ancora lontano dai livelli pre-Covid

Cresciuto del 10% nel 2021, ma ancora lontano dai livelli pre-covid, il mercato del factoring italiano rappresenta oggi un supporto fondamentale per le aziende che necessitano di liquidità attraverso la cessione dei crediti commerciali, con l’obiettivo di finanziare il proprio capitale circolante secondo le modalità pro soluto e pro solvendo.

Il factoring pro soluto ampiamente dominante rispetto alla modalità pro solvendo

Sempre secondo i dati di TrueNumbers, il factoring pro-soluto – che prevede la cessione completa del rischio di credito dal creditore al factor – è la soluzione ampiamente più diffusa con una percentuale del 79% del fatturato globale del settore, che nel 2021 ha raggiunto i 250 miliardi di euro. Meno diffusa, ma altrettanto conosciuta, la soluzione pro solvendo, dove il creditore che cede il credito conserva la responsabilità giuridica di un eventuale mancato pagamento delle fatture cedute.

Il mercato della cessione dei crediti commerciali non smette di crescere e differenziarsi

In questo contesto, come rilevato anche dagli ultimi dati dell’Osservatorio Supply Chain Finance del Politecnico di Milano, non mancano le alternative a fronte di una sostanziale stabilità dell’offerta di soluzioni tradizionali come l’anticipo fatture bancario: dal reverse digitale all’invoice trading su piattaforme come CashMe, tramite cui è possibile cedere i propri crediti commerciali a investitori istituzionali senza richiesta di garanzie né segnalazione in centrale rischi, sempre in modalità pro soluto.

L’invoice trading online per le aziende che preferiscono una maggiore flessibilità

A differenza del factoring tradizionale, l’invoice trading online rappresenta una soluzione più flessibile per quelle imprese che non intendono cedere la totalità dei propri crediti commerciali, ma solo una parte di essi, come riscontrato anche dai nostri clienti che hanno già attivato il servizio: un segnale, ulteriore, che il mercato della cessione dei crediti rappresenta oggi un sostegno fondamentale nella ripartenza dell’economia italiana e che anche grazie alle nuove tecnologie può rispondere meglio, e in maniera più rapida, alle differenti e mutate esigenze delle aziende, grandi o piccole che siano.

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Otto imprese ogni cento: è la percentuale di PMI che secondo uno studio di Livolsi&Partners, esperti di consulenza aziendale e finanziaria, riuscirebbe a oltrepassare indenne l’appuntamento con il passaggio di testimone dal fondatore o dal team di fondatori alla generazione successiva. Nel doppio dei casi, tuttavia, le aziende prese in esame andrebbero incontro a una liquidazione (16% del totale) tanto definitiva quanto probabilmente evitabile, soprattutto alla luce delle soluzioni oggi a disposizione degli imprenditori.

Le aziende che sopravvivono al passaggio generazionale sono quelle che si preparano per tempo

Lo studio, ripreso tra gli altri da Teleborsa, sottolinea infatti come nella maggior parte dei casi la sopravvivenza delle aziende oltre la generazione dei fondatori non sia affatto una conseguenza del caso, né tantomeno di scelte fatte all’ultimo minuto: oltre il 50% delle imprese continuerebbe a operare tramite operazioni di merger&acquisition, mentre nel 23% dei casi rimanenti le imprese andrebbero incontro alla quotazione in borsa. Un’opzione, sottolineano gli autori dello studio, tanto più probabile quanto più l’azienda da tempo viene guidata da sapienti mani “esterne”.

Difficoltà economiche e finanziarie e burocratiche tra gli ostacoli maggiori al passaggio generazionale

In alternativa, affinché il destino dell’azienda venga affidato interamente alle mani degli eredi naturali del fondatore, è importante inserire per tempo questi ultimi all’interno dei team di lavoro, e anticipare l’insorgere di problemi che uno studio di Confartigianato ha identificato essere i più ricorrenti sulla strada del passaggio generazionale: difficoltà burocratiche, legislative e fiscali, il trasferimento di competenze verso clienti e fornitori e difficoltà di ordine economico e finanziario, oltre ovviamente all’assenza di eredi naturali diretti che può essere solo in parte compensata con la cooptazione di altre figure familiari.

Obiettivo: individuare interlocutori che sappiano riconoscere il giusto valore economico

L’obiettivo, sia che si tratti di passaggio generazionale vero e proprio sia che si tratti di M&A, è sempre quello della sopravvivenza a lungo termine di un’idea imprenditoriale e delle persone che hanno contribuito al suo successo. In questo senso, il managing partner di Livolsi &PArtners, Massimo Bersani, sottolinea come sia “necessario trovare la soluzione adeguata alle esigenze degli imprenditori, cercando di individuare fondi di private equity od organizzazioni industriali che sappiano riconoscere il giusto valore economico delle aziende, anche in termini di competenze umane presenti nelle medesime“. Un riconoscimento, quello del “giusto valore”, a cui il mondo finanziario e fintech è chiamato a prestare grande attenzione, soprattutto ora che il venir meno di garanzie pubbliche al credito rischia di mettere in difficoltà più di un’azienda “sana” ma impegnata in un difficile percorso di transizione dal vecchio al nuovo, da una generazione all’altra.

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Un nuovo sito, una nuova newsletter, un nuovo blog per avvicinare sempre più imprenditori e investitori alle nuove forme di finanza complementare per la cessione pro-soluto dei crediti commerciali e al reverse digitale per il supporto alla filiera dei fornitori: questo è l’obiettivo che ci siamo dati quando abbiamo cominciato a progettare il nuovo sito di CashMe SpA, l’azienda fondata nel 2017 da un team di giovani professionisti e appassionati di fintech, diventata in breve tempo piattaforma di riferimento in Italia nel settore dell’invoice trading e anticipo fatture online e dal 2019 parte del Gruppo Finservice.

Che cosa troverete nel nuovo sito di CashMe, dall’invoice trading all’evoluzione del reverse factoring

Il nuovo sito è pensato innanzitutto per spiegare in maniera semplice e immediata come funzionano i nostri servizi a disposizione delle imprese, a partire dall’invoice trading per cui siamo principalmente conosciuti. La sezione “come funziona” spiega in pochi, semplici passaggi come registrarsi al sito e iniziare a caricare le proprie fatture sulla piattaforma proprietaria di CashMe, rispondendo alle domande più comuni che ci vengono poste e favorendo l’interazione con i nostri esperti e consulenti specializzati, via chat, in streaming, o prenotando un appuntamento presso la sede della propria azienda su tutto il territorio nazionale.

Una sezione dedicata è stata riservata, inoltre, al servizio di CashMe Digital Reverse dedicato alle imprese che vogliono supportare la propria filiera di fornitori favorendo l’accesso alla liquidità da parte di questi ultimi tramite la cessione pro-soluto dei propri crediti commerciali attraverso la nostra nuova piattaforma online. Il blog, infine, attivo fin dalla nascita di CashMe, è stato completamente rinnovato nella grafica e nei contenuti per ospitare testimonianze, approfondimenti, analisi e notizie salienti sul mondo della finanza complementare al tradizionale sistema bancario in Italia e nel resto del mondo.

La newsletter per scoprire il mondo della finanza complementare

Il concetto di “finanza complementare”, in questo contesto, rappresenta un aspetto fondamentale per comprendere i grandi mutamenti in atto nel sistema finanziario e bancario in seguito alla diffusione delle nuove tecnologie: invoice trading, reverse digitale e altre tipologie di servizio sono infatti strumenti utili a fornire alle aziende un canale di finanziamento complementare e non alternativo a quello bancario, con l’obiettivo di ridurre i rischi di indebitamento eccessivo delle imprese, migliorare il rating e di conseguenza le possibilità delle imprese stesse di accedere a un credito maggiore e di miglior qualità in futuro.

Per far sì che questi e altri concetti, solo apparentemente complessi, possano diventare patrimonio comune di una fetta più ampia della società produttiva e dei suoi potenziali investitori, abbiamo affiancato al nostro blog una newsletter mensile di approfondimento: per rimanere più facilmente aggiornati con le ultime notizie dal mondo fintech, per conoscere le testimonianze di coloro che si servono di servizi finanziari innovativi, per contribuire alla crescita e visibilità del settore di cui facciamo parte e che mai come in quest’ultimo anno ha dimostrato di poter svolgere un ruolo cruciale nella resilienza e ripresa economica di un intero Paese.

Il team di CashMe