Il valore della posta in gioco, mai come in questo caso, è altissimo: secondo lo studio internazionale Knight Frank nei prossimi quindici anni è previsto un travaso ereditario generazionale complessivo del valore di duemila miliardi nel nostro Paese, quasi due terzi del nostro debito pubblico, su un totale globale stimato di quasi 90 mila miliardi di dollari.
Un passaggio di patrimoni che, tuttavia, rappresenta anche un vero e proprio passaggio di testimone tra un modo di gestire le ricchezze e gli investimenti, verso una nuova generazione che segue codici, comportamenti e culture in gran parte diverse rispetto al passato.
Come sottolineato anche da Ferruccio de Bortoli nel suo editoriale sul Corriere Economia, la transizione che ci apprestiamo ad affrontare è anche una transizione di genere, da imprenditori prevalentemente di sesso maschile a figli, mogli, nipoti ed eredi donne.
È anche una transizione culturale: la generazione dei Millennials, che si candida al trofeo di “più ricca della storia” ha maturato nel corso degli ultimi anni una crescente consapevolezza in merito all’importanza della sostenibilità, non solo ambientale ma anche sociale, delle imprese e dei settori in cui è chiamata a investire i patrimoni ereditati.
Un passaggio di ricchezza storico, a suo modo, che potrebbe avere un impatto positivo nei confronti dell’economia reale, a condizione di creare le condizioni affinché questo enorme travaso di liquidità (o “liquidy Event”, per usare la terminologia tecnica) possa raggiungere almeno in parte le piccole e medie imprese, che da sempre rappresentano l’ossatura del nostro sistema produttivo, anche attraverso nuovi strumenti di finanza alternativa.
In particolare, la crescita di strumenti di “alternative supply chain finance” oggi offre agli investitori la possibilità di sostenere direttamente l’economia reale e le piccole e medie imprese attraverso l’aiuto della tecnologia, riducendo l’impatto ambientale dei processi, aumentando la capacità di penetrazione dei servizi anche in aree remote del Paese e offrendo condizioni di finanziamento più vantaggiose rispetto a quelle degli attori tradizionali.
Un cambiamento culturale, anche questo, che sembra venire incontro al bisogno delle nuove generazioni di valorizzare la propria ricchezza in maniera diversa rispetto al passato, servendosi dei nuovi strumenti tecnologici e generando un impatto profondo e duraturo nelle imprese, nella società, nell’economia: un impatto proprio su quel tessuto produttivo da cui in molti casi ha avuto origine il successo delle loro famiglie, e che ha ancora tanto da offrire in termini di valore.
Dal 5 al 6 giugno 2024, in presenza, al Palazzo del Ghiaccio di Milano presso lo stand M3: questo è tutto quello che ti serve per venire a scoprire in anteprima i nostri nuovi servizi e il futuro dell’invoice trading e digital reverse di CashMe alla Fiera del Credito, l’evento della Credit Week che riunisce ogni anno i principali player della filiera del credito, dalle fintech agli operatori tradizionali del mondo bancario e delle associazioni.
Nel cuore di Milano, a due passi dalla stazione di Porta Vittoria, il Palazzo del Ghiaccio ospiterà quindi due giorni di incontri, appuntamenti e approfondimenti insieme a startup, società specializzate nella finanza alternativa, società di tutela, gestione e recupero dei crediti e banche.
L’evento, organizzato da CreditNews, gode del patrocinio del Comune di Milano e Regione Lombardia e prevede – oltre alla Fiera del Credito – cinque giorni densi di appuntamenti, dove si alterneranno business meeting in presenza e round table online, insieme alla Fiera vera e propria.
Filo conduttore di questa nuova edizione della Credit Week – di cui la Fiera del Credito rappresenta il più importante evento di presenza – sono le persone: il loro ruolo nel successo delle imprese, l’importanza dell’aggiornamento professionale e del capitale relazionale, oltre ovviamente al rapporto con i clienti e con i nuovi strumenti ibridati dall’intelligenza artificiale.
Persone, quindi, accanto alla tecnologia: un approccio che noi di Cashme abbiamo fatto nostro fin dagli esordi, quando abbiamo deciso di lanciare una startup fintech nel settore dell’invoice trading puntando tutto sulla qualità delle relazioni, la flessibilità nel venir incontro alle esigenze dei clienti e la consulenza personalizzata, elementi complementari rispetto alla tecnologia.
Come saranno i professionisti del futuro? Quale sarà il futuro del fintech grazie a un sempre maggiore coinvolgimento delle persone? Vieni a trovarci alla CreditWeek per scoprirlo!
Oltre 118.000 aziende associate, 1,1 miliardi di euro di garanzie in essere, un solo Consorzio Unitario: sono questi i numeri di Artigiancredito, tra i più rappresentativi consorzi italiani di garanzia per l’accesso al credito delle Piccole e Medie imprese, da questo mese partner di CashMe SPA.
La partnership, annunciata ufficialmente in occasione del II Meeting Artigiancredito, ha come obiettivo quello di fornire alle aziende associate al consorzio la possibilità di attivare il nostro servizio di invoice trading online a condizioni dedicate per tutti gli iscritti.
Stefano Sainati (a destra), co-founder di CashMe, firma la partnership con Fabio Petri (a sinistra), presidente di Artigiancredito
In questo modo, le piccole e medie imprese che fanno parte di Artigiancredito hanno la possibilità di cedere in maniera rapida e trasparente i loro crediti commerciali agli investitori istituzionali attivi sulla nostra piattaforma, ottenendo liquidità immediata per il finanziamento del proprio capitale circolante e migliorando – in prospettiva – il proprio rating bancario grazie al deconsolidamento dei crediti dal bilancio.
“La partnership tra Artigiancredito e CashMe nasce, non casualmente, in un momento cruciale per il futuro di tantissime piccole e medie imprese italiane – dichiara Marcello Scalmati, CEO e co-founder di CashMe – costrette negli ultimi mesi a fare i conti con l’irrigidimento delle condizioni di accesso al credito, la crescita dei prezzi delle materie prime e la contrazione dell’economia. In questo contesto, la partnership offre alle aziende membri del Consorzio l’opportunità di ampliare i propri canali di finanziamento grazie al sostegno del nostro team di esperti e alle possibilità di disintermediazione offerte dalla tecnologia che rendono l’invoice trading online uno strumento di finanza alternativa accessibile a tutti”.
“Nell’ambito del progetto di digitalizzazione di Artigiancredito, abbiamo deciso di proporre ai nostri soci soluzioni alternative per ottenere liquidità immediata attraverso partner di fiducia come Cashme – dichiara il presidente di Artigiancredito Fabio Petri – che offre alle imprese la possibilità di cedere le proprie fatture ad investitori istituzionali attraverso una piattaforma web. In questo momento di incertezza economica presentiamo alle PMI italiane soluzioni semplici e concrete per lo sviluppo del proprio business attraverso collaborazioni con professionisti dell’Invoice trading come il team di Cashme che ci supporta in quello che è da sempre il nostro obiettivo di affiancamento e sostegno alle Imprese del nostro territorio”.
La buona notizia è che le imprese italiane sono state in grado di sopperire al flusso negativo di nuovi prestiti, fatto registrare dalle banche nel corso di tutto il 2023, grazie all’accumulo di riserve di liquidità nel periodo Covid, in alcuni casi maggiore rispetto alla media dell’area Euro. La cattiva notizia è che la contrazione dei prestiti non si ferma, soprattutto quelli a breve termine e che più di altri servono a sopperire le esigenze di capitale circolante delle aziende a fronte di una fiammata inflattiva in corso e che non accenna a diminuire.
I numeri del factoring per il 2023-2024: il report Assifact
Eppure, secondo l’Osservatorio Factoring 2023 di Assifact “Never normal? Il 2024 del factoring dopo pandemia e shock energetici” il calo dei prestiti sembra essere guidato più dalla domanda, che dall’offerta. L’aumento dei tassi di interesse, il calo del fabbisogno per la spesa in investimenti fissi e proprio il maggior ricorso all’autofinanziamento in virtù delle riserve accumulate durante gli anni della pandemia hanno portato numerose imprese a diversificare le fonti di finanziamento rispetto al canale bancario, anche se va notato come le imprese di dimensioni minoro godano oggi di minori margini disponibili soprattutto sui fidi bancari di volumi inferiori.
In questo contesto, non stupisce come il mercato del factoring continui la sua fase positiva raggiungendo un turnover sostanzialmente simile a quello del 2022, con 206,71 miliardi di volumi complessivi a settembre 2023 rispetto ai 207,46 miliardi dell’anno precedente. Se è vero che gli anticipi per operazione di factoring sono andati incontro a una contrazione (-5,17%), nondimeno secondo il report di Assifact il calo è inferiore rispetto a quello fatto registrare dai prestiti a breve termine alle imprese nel loro complesso (-9,14% per quelli a scadenza entro un anno).
Previsioni ottimiste e strumenti alternativi al factoring stesso
Le previsioni degli operatori restano quindi ottimiste per tutto il 2023: il mercato del factoring si consoliderà rispetto al 2022, con un turnover in calo “solamente” dello 0,49%, gli impieghi in aumento dello 0,7% e l’outstanding in crescita dello 0,53%, con una crescita prevista del 3,38% nel 2024 del valore interpolato medio dei diversi scenari di previsione (e con previsioni ancora più ottimiste da parte degli operatori di factoring). Difficile dargli torto, se si tiene conto che anche secondo Unimpresa i prestiti destinati alle aziende sono passati da 676,4 miliardi di euro a settembre 2022 ai 619,5 miliardi di euro a settembre 2023, con un calo in tutte le tipologie di finanziamenti.
Resta, in questo contesto, la consapevolezza che gli imprenditori sembrano aver appreso la lezione: sempre meno dipendenti da un unico canale di finanziamento, essi dispongono oggi di una serie di strumenti in grado di venire incontro alle loro esigenze anche in misura più flessibile e immediata rispetto al factoring stesso. Invoice trading, dynamic discouting, factoring digitale sono infatti alcuni degli strumenti resi possibili dall’innovazione generata dal settore fintech per fornire un ampio ventaglio di alternative a fronte di tassi di interesse destinati a rimanere elevati ancora a lungo e a un progressivo ritrarsi degli istituti di credito, soprattutto dalle aziende di dimensioni minori e dai territori periferici: la buona notizia, in questo caso, è che altri hanno già preso il loro posto.
Non sei ancora cliente CashMe?
Secondo il modello messo a punto dall’Osservatorio Innovazione Digitale nelle PMI emerge che il 55% delle piccole e medie aziende italiane sia oggi in una condizione di arretratezza rispetto al digitale, mentre il 45% ha già avviato con intensità differenti percorsi di digitalizzazione, dimostrando più attenzione alla crescita delle competenze digitali e all’impiego diffuso delle tecnologie. In particolare, il 9% di queste aziende appartengono al segmento da noi definito come “Avanzato“, qualificato anche da una maggiore attenzione per le strategie collaborative.
Rispetto alla precedente rilevazione assistiamo a un peggioramento dei segmenti più evoluti (-5%), ma non bisogna farsi ingannare. La spiegazione non sta nella disaffezione verso il digitale, ma nella necessità di risolvere problemi contingenti – crisi delle supply chain e crisi energetica – che hanno spostato l’attenzione verso problemi da risolvere nell’immediato, pena il rischio di sopravvivenza dell’azienda. Gli investimenti nel digitale sono stati così spostati in avanti sull’asse temporale, mentre le aziende che negli anni precedenti avevano già compreso l’importanza della tecnologia hanno confermato l’interesse verso il tema.
Nello specifico, il modello di maturità digitale messo a punto dall’Osservatorio ha individuato quattro profili che ci permettono di identificare l’approccio delle aziende alla cultura digitale, alla trasformazione nei processi lavorativi e alla collaborazione con l’ecosistema esterno. In questa classificazione il 16% sono imprese “Scettiche“, poco attente agli investimenti e alle competenze digitali, il 39% risultano “Timide“, con un buon livello di cultura e uso del digitale ma non ancora pronte a impieghi trsversali in azienda, il 36% sono aziende “Convinte” e il 9% “Avanzate”, cioè dotate di un livello ottimale di cultura e digitalizzazione dei processi lavorativi e pronte a collaborare con soggetti ad alto tasso tecnologico, come le startup, utilizzando bene i contributi europei e i bandi a sostegno della digitalizzazione.
In questo contesto, i maggiori ostacoli per un imprenditore interessato alla digitalizzazione riguardano la propria sfera individuale e quella dell’ecosistema di appartenenza. Se è vero che la cultura gestionale di alcune aziende non riconosce al digitale il ruolo di alleato nello sviluppo dell’impresa, dall’altro lato l’ecosistema di riferimento – professionisti, software house, banche, associazioni di categoria, innovation hub territoriali – spesso non è in grado di dare un contributo di sostanza al miglioramento della cultura gestionale delle imprese. Ciò è tanto più urgente quanto più diminuiscono le dimensioni aziendali: in questo caso, la quotidianità non consente all’imprenditore di trovare il tempo adeguato da dedicare alla programmazione e allo sviluppo.
L’ecosistema, nelle sue diverse espressioni, deve quindi cambiare i propri paradigmi tradizionali per comprendere a fondo le problematiche sui mercati di sbocco e di approvvigionamento delle aziende, formulando ipotesi collaborative e in grado di generare reale valore all’azienda all’interno della gestione caratteristica, deputata a remunerare il capitale di rischio. Il vero valore per l’impresa non è infatti quello di acquistare la miglior soluzione esistente sul mercato, ma acquistare quella più funzionale al raggiungimento degli obiettivi strategici definiti, relazionandosi con dei partner tecnologici in grado di ascoltare non solamente le richieste espresse dai clienti ma di individuare quelle latenti, attraverso la raccolta di informazioni sui mercati di sbocco e di fornitura. In questo modo è possibile sviluppare una relazione duratura, in cui gli obiettivi dell’impresa diventano anche gli obiettivi del fornitore, che li interiorizza, comprendendoli appieno e mettendoli a terra attraverso proposte in linea con le reali strategie aziendali.
Claudio Rorato
Direttore Osservatorio Innovazione Digitale nelle PMI del Politecnico di Milano
Per migliorare il legame con la comunità e i territori, accrescere il senso di appartenenza e la soddisfazione di vita dei dipendenti, ma anche il coinvolgimento e il dialogo con i clienti, le relazioni di filiera e distrettuali e, infine, la stessa competitività: sono questi i benefici attesi da una maggiore coesione delle imprese secondo l’ultimo rapporto annuale presentato in occasione dell’incontro “Coesione è competizione. La forza dei Territori nella Transizione Verde“, promosso da Fondazione Symbola, Unioncamere e Intesa Sanpaolo e presentato a Mantova nel corso di questo weekend.
Ma chi sono, in sintesi, le imprese “coesive”? Sono tutte quelle aziende capaci di includere nelle proprie attività attori esterni e non necessariamente provenienti dal mondo for-profit: sono coesive le imprese che collaborano con università, professionisti, creativi esterni per favorire la nascita di nuovi servizi e prodotti, ma lo sono anche quelle che contribuiscono alla propria comunità tramite l’ingaggio di enti del terzo settore o di esponenti della società civile locale.
Il livello di coesione di un’impresa si misura anche in termini di capacità di relazione con i clienti, non più limitata al solo scambio utilitaristico del “customer care” ma declinata in termini di ascolto delle loro esigenze, co-progettazione di prodotti e trasformazione dei clienti stessi in ambassador dell’impresa. Sono coesive, infine, quelle aziende capaci di passare da una relazione di dipendenza con la banca a un rapporto sempre più egualitario, trovando negli istituti finanziari – o in altri operatori specializzati, aggiungeremmo noi – un partner fondamentale per riorganizzare la propria filiera.
Tutto questo non si traduce solo in miglioramenti qualitativi, ma anche con impatti concretamente misurabili sul proprio business: secondo la Fondazione Symbola, nel 2023 il 55,3% delle aziende coesive prevedono un aumento del fatturato (rispetto al 42,3% di quelle che non rientrano in questa categoria), il 34,1% hanno intenzione di incrementare la propria forza lavoro (rispetto al 24,8% delle altre) e il 42,7% prevedono una crescita delle esportazioni (versus il 32,5% delle altre tipologie), mentre attenzione alla sostenibilità e investimenti nel digitale presentano valori quasi doppi rispetto al resto delle aziende.
In questo contesto, non sorprende infine il diverso rapporto esistente tra le aziende coesive e il proprio ecosistema di riferimento, locale ma soprattutto nazionale: rispetto alle aziende tradizionali, quelle coesive sono intenzionate ad aumentare nel 24% dei casi la percentuale di fornitori locali o extra regionali (rispetto al 19% delle altre) e pongono una maggiore attenzione alla qualità dei prodotti nei criteri principali di selezione dei fornitori (83,8% vs 76,9%). Un approccio che potremmo definire lungimirante, soprattutto in tempi di “backshoring” delle filiere produttive, e che rappresenta un’importante soluzione di continuità rispetto agli ultimi anni, nell’ottica di rafforzare i legami non solo con i propri fornitori o clienti, ma anche con quella comunità di stakeholder che rappresenta oggi più che mai la vera forza di un’impresa rispetto alle altre.
Quattro su dieci: è il numero medio di imprese italiane che dichiarano di ricevere pagamenti puntuali al termine del primo trimestre 2023, in lieve peggioramento rispetto al trimestre precedente (40,8% vs 40,9%) ma in netto miglioramento rispetto all’ultimo trimestre di un anno fa quando erano al 38,5% del totale. Crescono, seppur di poco, i ritardi superiori ai 30 giorni, attestati al 9,5% del totale.
Sono questi i dati principali che emergono dalla XIX edizione dello Studio Pagamenti di Cribis, realizzato con il contributo del partner Dun & Bradstreet e presentato alcuni giorni fa a Milano nel corso di un evento in collaborazione con il Corriere della Sera, e che dimostrano quello che è già da tempo un fenomeno consolidato: Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto si confermano le regioni con la maggior percentuale di pagamenti regolari (oltre il 48%), mentre Sicilia e Calabria si attestano in fondo alla classifica.
Tra i vari settori oggetto di indagine emerge come le imprese che denunciano i maggiori ritardi nei pagamenti siano quelle del settore trasporti, con una crescita dell’8,2% rispetto al trimestre precedente e addirittura del 54% rispetto alla fine del 2022 per le fatture saldate oltre i 30 giorni di attesa. Al secondo posto si collocano le industrie chimiche e della ceramica, mentre Grande Distribuzione, Distribuzione Organizzata, Energy & Telco sono i settori dove le aziende hanno visto una riduzione di oltre il 20% dei ritardi più gravi, recuperando ampiamente il gap generato dalla crisi pandemica ed economica.
A un livello più ampio, spiace constare come l’Italia rimanga ampiamente indietro rispetto alle performance degli altri Paesi avanzati: a fronte di una puntualità del 40% di quelle italiane, le imprese francesi e spagnole dichiarano percentuali vicine al 50% mentre al primo posto in termini di rapidità di incasso si collocano Danimarca con il 91%, seguita da Polonia, Ungheria e Olanda con oltre il 70% di pagamenti puntuali. Spicca, in questo scenario, il caso portoghese, dove l’incremento dei pagamenti puntuali rispetto alla fine del 2021 è stato dell’ordine del 20%: segnale che importanti progressi possono essere raggiunti su questo fronte, soprattutto in un momento in cui inflazione e aumento dei costi di finanziamento impongono alle aziende una maggiore prudenza nella gestione dei flussi di cassa e nelle modalità di accesso alla liquidità.
La crisi pandemica, la guerra, la crescita dei costi delle materie prime, l’inflazione, le incertezze geopolitiche, ma anche la crescente pressione normativa, le richieste sempre più esigenti dei consumatori e degli investitori: è difficile oggi stimare con esattezza quali siano le cause esatte che hanno portato un numero crescente di aziende a prestare un’attenzione crescente al rispetto dei criteri ESG e il proprio impatto su ciascuno di essi, anche attraverso la scelta dei fornitori da impiegare nella realizzazione di prodotti e servizi.
Non sorprende quindi che, come ricordato anche da un articolo pubblicato sul blog Econopoly del Sole 24 Ore da Giulia De Vendictis, Public Funding & Grants Specialist di MET Devlopment (MAIRE Group), le imprese oggi siano attente non solo a farsi assegnare un rating ESG, ma anche assegnarne uno alle proprie controparti in qualità di capofiliera. In futuro, quindi, sarà sempre più abituale sentir parlare di “Sustainable Supply Chain” (SSC) per riferirsi a un modo sostenibile di concepire e strutturare le catene di approvvigionamento, e di “Sustainable Supply Chain Finance” nel favorire questa transizione.
L’analisi dei fornitori realizzata tramite i criteri ESG per vie interne o tramite information provider esterni è un aspetto critico da valutare, ma non è quello che ci interessa approfondire nello specifico in questo articolo. Quello che è importante sottolineare, infatti, è l’importanza crescente della sostenibilità non solo dal punto di vista dell’etica, ma anche dal punto di vista delle conseguenze per il fatturato di ogni singola azienda e delle sue reali capacità di mantenere rapporti di lavoro, contratti in essere, e di raccogliere finanziamenti sui mercati dei capitali o in quello bancario a condizioni più agevolate di altre.
La valutazione ESG dei fornitori non rappresenta, in questo senso, un punto di arrivo ma uno di partenza: in base al punteggio ottenuto, essi possono aspirare a ricevere forme diverse di finanziamento a condizioni migliori rispetto a coloro che hanno ricevuto un punteggio inferiore – ad esempio, nell’accesso a programmi di cessione dei crediti commerciali tramite reverse factoring stipulati dall’azienda capofiliera per favorire il pagamento anticipato delle fatture dei fornitori in deficit di liquidità – oppure essere del tutto esclusi da programmi di questo tipo in caso di un punteggio ampiamente insufficiente, con ovvie conseguenze negative in termini di competitività, costo dei finanziamenti e relazioni con l’azienda cliente.
Pur in un contesto difficile, determinato da una cultura aziendale ancora in procinto di evolversi e dalla difficoltà di ottenere valutazioni ESG basate su dati oggettivi e misurabili, resta un cambio di paradigma che si preannuncia come storico: in futuro, la scelta dei fornitori e l’accesso di questi ultimi ai diversi strumenti di supply chain finance non dipenderà più unicamente dalla qualità del lavoro svolto, dalla convenienza dei prezzi o da altri criteri tradizionalmente utilizzati, ma in misura crescente anche dall’impegno concreto e misurabile di questi ultimi sul fronte della sostenibilità, con meccanismi di incentivazione direttamente proporzionali ai risultati conseguiti e alla capacità di prepararsi per tempo al cambiamento in atto.
Noi di CashMe, in questo scenario, abbiamo da tempo incentivato l’ingresso di investitori istituzionali specializzati nell’acquisto di crediti commerciali ESG-compliant all’interno della nostra piattaforma digitale di invoice trading e digital reverse, e siamo consapevoli che il sostegno alla sostenibilità che possiamo dare in quanto esponenti della finanza alternativa è tanto necessario quanto importante per la diffusione di nuove pratiche sostenibili: tanto più, è il caso di aggiungere, se non saremo solo noi e pochi altri attori a fare un passo in questa direzione, ma se più in generale il settore del fintech saprà cogliere al volo l’opportunità di rispondere a un bisogno sempre più diffuso a tutti i livelli della società e del mondo dell’impresa.
Il factoring gode di ottima salute, e i motivi sono da ricercarsi nella capacità di questo strumento di rispondere a una molteplicità di bisogni di finanziamento delle aziende pur a fronte di una certa rigidità dei processi. È quello che emerge dal sondaggio KPMG per conto dell’associazione Assifact secondo il quale più dell’80% delle aziende intervistate esprime un giudizio variabile dal “buono” all'”ottimo” su questa forma di finanziamento complementare all’anticipo fatture bancario.
Nel dettaglio, a far pendere l’ago della bilancia dei giudizi in favore del factoring sono diverse qualità dello strumento che non sempre sono conosciute dai non addetti ai lavori. Per la maggioranza delle imprese intervistate, il 28,6%, il factoring è una forma di finanziamento complementare al credito bancario mentre per una percentuale analoga di intervistati (24,8%) esso è un modo per ottimizzare il capitale circolante attraverso l’eliminazione dei crediti dal bilancio. Al terzo posto si collocano coloro che lo ritengono una garanzia del buon fine dei crediti commerciali (18,1%).
Minoritari, ma non per questo meno importanti, le opinioni di chi ritiene che il factoring sia uno strumento utile a gestire i crediti commerciali in maniera professionale (13,9%) e chi invece ne fa uso in maniera completamente alternativa, per non dire opposta, al credito bancario (11,3%). Scarsa, per non dire assente, la percentuale di coloro che ricorrono al factoring quale forma di recupero di crediti insoluti o problematici (2,5%) e di chi invece non ha ancora sufficiente esperienza o consapevolezza per esprimere opinioni informate sull’argomento (0,8%).
Da notare, inoltre, come la qualità del giudizio cambi in funzione della dimensione delle imprese: se per quelle di dimensioni maggiori è l’ottimizzazione del bilancio l’aspetto più importante, per quelle più piccole è la protezione delle perdite sui crediti e la gestione del rischio l’aspetto di maggior attrattiva. Scontata la preferenza delle aziende nei confronti dello strumento: su una scala di 1 a 4, in prima posizione si colloca proprio il factoring con 3,5, rispetto all’anticipo fatture (3,2) e all’1,9 dell’invoice trading online, meno diffuso dei primi due ma in grande crescita come dimostrano i dati recenti del Politecnico di Milano.
Resta agli atti, in questo senso, una straordinaria performance fatta registrare nel corso degli ultimi anni: la crescita, stabilmente a doppia cifra eccetto per le fasi intermedie della pandemia, ha portato il factoring a un turnover complessivo di oltre 287 miliardi di euro nel solo 2022, con un aumento del 14,61% rispetto all’anno precedente su un totale di 32 mila imprese cedenti, segno della maturità di un settore che tuttavia presenta alcuni aspetti e caratteristiche da tenere in attenta considerazione.
La rigidità, dicevamo: rispetto al factoring, l’invoice trading online offre alle aziende una maggiore flessibilità rispetto nella scelta di quali crediti commerciali cedere per ottenere liquidità immediata dagli investitori istituzionali. Un elemento, quest’ultimo, che ne fa oggi uno dei settori a maggior crescita della del fintech italiano, e che consente di collocarlo in forma stabile quale una delle forme di finanziamento complementare rispetto al credito bancario e al factoring stesso, con un aumento del 90% anno su un anno del transato che conferma il crescente interesse da parte delle aziende rispetto alle soluzioni più conosciute.
Insieme, al fianco delle imprese che hanno bisogno di liquidità in tempi brevi e senza mettere a rischio la propria sostenibilità aziendale: questo è l’obiettivo della partnership tra CashMe SpA e Change Capital e che porterà un numero sempre maggiore di piccole e medie imprese a beneficiare della possibilità di cedere i propri crediti commerciali in maniera pro-soluto a investitori istituzionali qualificati tramite la nostra piattaforma di invoice trading online.
Nata a maggio 2019, Change Capital è a tutti gli effetti una scaleup fintech che ha profondamente innovato e rinnovato le modalità di accesso al credito delle PMI, identificando a favore di imprenditori, CFO e responsabili amministrativi i canali e le modalità più idonee a trovare rapidamente le risorse finanziarie necessarie ai propri investimenti o al finanziamento del capitale circolante. Tra queste si aggiunge anche CashMe quale soluzione di invoice trading online e digital reverse.
In questo senso, il percorso comune cominciato oltre due anni fa con i primi contatti tra i team di CashMe SpA e Change Capital è diventato ormai una partnership consolidata, nell’ottica di aiutare i clienti di entrambe le aziende ad accedere più agevolmente e in maniera strutturata alle possibilità di finanziamento messe a disposizione dalle due piattaforme: verticale e specializzata nell’invoice trading e reverse digitale quella di CashMe, generalista e con un ruolo di facilitatore tra aziende e nuovi mercati del credito quella di Change Capital.
A determinare in senso positivo la decisione di ufficializzare il nostro percorso comune è stata la consapevolezza, maturata nel corso del tempo e della collaborazione tra i due team, di essere attori dello stesso mercato e di poter, insieme, offrire un servizio più ampio ai clienti di entrambe le aziende. Change Capital, in particolare, si è dimostrato un partner affidabile in grado di selezionare con cura le aziende proposte ed effettivamente in linea con i criteri dei nostri investitori, e soprattutto in grado di condividere il nostro approccio “phygital” al mercato. Entrambe le realtà, infatti, offrono strumenti tecnologici avanzati accompagnati dalla presenza di consulenti specializzati: un ulteriore punto di contatto su cui costruire l’architettura della nostra comune offerta di servizi fintech.