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La crisi pandemica, la guerra, la crescita dei costi delle materie prime, l’inflazione, le incertezze geopolitiche, ma anche la crescente pressione normativa, le richieste sempre più esigenti dei consumatori e degli investitori: è difficile oggi stimare con esattezza quali siano le cause esatte che hanno portato un numero crescente di aziende a prestare un’attenzione crescente al rispetto dei criteri ESG e il proprio impatto su ciascuno di essi, anche attraverso la scelta dei fornitori da impiegare nella realizzazione di prodotti e servizi.

Non sorprende quindi che, come ricordato anche da un articolo pubblicato sul blog Econopoly del Sole 24 Ore da Giulia De Vendictis, Public Funding & Grants Specialist di MET Devlopment (MAIRE Group), le imprese oggi siano attente non solo a farsi assegnare un rating ESG, ma anche assegnarne uno alle proprie controparti in qualità di capofiliera. In futuro, quindi, sarà sempre più abituale sentir parlare di “Sustainable Supply Chain” (SSC) per riferirsi a un modo sostenibile di concepire e strutturare le catene di approvvigionamento, e di “Sustainable Supply Chain Finance” nel favorire questa transizione.

L’analisi dei fornitori realizzata tramite i criteri ESG per vie interne o tramite information provider esterni è un aspetto critico da valutare, ma non è quello che ci interessa approfondire nello specifico in questo articolo. Quello che è importante sottolineare, infatti, è l’importanza crescente della sostenibilità non solo dal punto di vista dell’etica, ma anche dal punto di vista delle conseguenze per il fatturato di ogni singola azienda e delle sue reali capacità di mantenere rapporti di lavoro, contratti in essere, e di raccogliere finanziamenti sui mercati dei capitali o in quello bancario a condizioni più agevolate di altre.

La valutazione ESG dei fornitori non rappresenta, in questo senso, un punto di arrivo ma uno di partenza: in base al punteggio ottenuto, essi possono aspirare a ricevere forme diverse di finanziamento a condizioni migliori rispetto a coloro che hanno ricevuto un punteggio inferiore – ad esempio, nell’accesso a programmi di cessione dei crediti commerciali tramite reverse factoring stipulati dall’azienda capofiliera per favorire il pagamento anticipato delle fatture dei fornitori in deficit di liquidità – oppure essere del tutto esclusi da programmi di questo tipo in caso di un punteggio ampiamente insufficiente, con ovvie conseguenze negative in termini di competitività, costo dei finanziamenti e relazioni con l’azienda cliente.

Pur in un contesto difficile, determinato da una cultura aziendale ancora in procinto di evolversi e dalla difficoltà di ottenere valutazioni ESG basate su dati oggettivi e misurabili, resta un cambio di paradigma che si preannuncia come storico: in futuro, la scelta dei fornitori e l’accesso di questi ultimi ai diversi strumenti di supply chain finance non dipenderà più unicamente dalla qualità del lavoro svolto, dalla convenienza dei prezzi o da altri criteri tradizionalmente utilizzati, ma in misura crescente anche dall’impegno concreto e misurabile di questi ultimi sul fronte della sostenibilità, con meccanismi di incentivazione direttamente proporzionali ai risultati conseguiti e alla capacità di prepararsi per tempo al cambiamento in atto.

Noi di CashMe, in questo scenario, abbiamo da tempo incentivato l’ingresso di investitori istituzionali specializzati nell’acquisto di crediti commerciali ESG-compliant all’interno della nostra piattaforma digitale di invoice trading e digital reverse, e siamo consapevoli che il sostegno alla sostenibilità che possiamo dare in quanto esponenti della finanza alternativa è tanto necessario quanto importante per la diffusione di nuove pratiche sostenibili: tanto più, è il caso di aggiungere, se non saremo solo noi e pochi altri attori a fare un passo in questa direzione, ma se più in generale il settore del fintech saprà cogliere al volo l’opportunità di rispondere a un bisogno sempre più diffuso a tutti i livelli della società e del mondo dell’impresa.

Il factoring gode di ottima salute, e i motivi sono da ricercarsi nella capacità di questo strumento di rispondere a una molteplicità di bisogni di finanziamento delle aziende pur a fronte di una certa rigidità dei processi. È quello che emerge dal sondaggio KPMG per conto dell’associazione Assifact secondo il quale più dell’80% delle aziende intervistate esprime un giudizio variabile dal “buono” all'”ottimo” su questa forma di finanziamento complementare all’anticipo fatture bancario.

Nel dettaglio, a far pendere l’ago della bilancia dei giudizi in favore del factoring sono diverse qualità dello strumento che non sempre sono conosciute dai non addetti ai lavori. Per la maggioranza delle imprese intervistate, il 28,6%, il factoring è una forma di finanziamento complementare al credito bancario mentre per una percentuale analoga di intervistati (24,8%) esso è un modo per ottimizzare il capitale circolante attraverso l’eliminazione dei crediti dal bilancio. Al terzo posto si collocano coloro che lo ritengono una garanzia del buon fine dei crediti commerciali (18,1%).

Minoritari, ma non per questo meno importanti, le opinioni di chi ritiene che il factoring sia uno strumento utile a gestire i crediti commerciali in maniera professionale (13,9%) e chi invece ne fa uso in maniera completamente alternativa, per non dire opposta, al credito bancario (11,3%). Scarsa, per non dire assente, la percentuale di coloro che ricorrono al factoring quale forma di recupero di crediti insoluti o problematici (2,5%) e di chi invece non ha ancora sufficiente esperienza o consapevolezza per esprimere opinioni informate sull’argomento (0,8%).

Da notare, inoltre, come la qualità del giudizio cambi in funzione della dimensione delle imprese: se per quelle di dimensioni maggiori è l’ottimizzazione del bilancio l’aspetto più importante, per quelle più piccole è la protezione delle perdite sui crediti e la gestione del rischio l’aspetto di maggior attrattiva. Scontata la preferenza delle aziende nei confronti dello strumento: su una scala di 1 a 4, in prima posizione si colloca proprio il factoring con 3,5, rispetto all’anticipo fatture (3,2) e all’1,9 dell’invoice trading online, meno diffuso dei primi due ma in grande crescita come dimostrano i dati recenti del Politecnico di Milano.

Resta agli atti, in questo senso, una straordinaria performance fatta registrare nel corso degli ultimi anni: la crescita, stabilmente a doppia cifra eccetto per le fasi intermedie della pandemia, ha portato il factoring a un turnover complessivo di oltre 287 miliardi di euro nel solo 2022, con un aumento del 14,61% rispetto all’anno precedente su un totale di 32 mila imprese cedenti, segno della maturità di un settore che tuttavia presenta alcuni aspetti e caratteristiche da tenere in attenta considerazione.

La rigidità, dicevamo: rispetto al factoring, l’invoice trading online offre alle aziende una maggiore flessibilità rispetto nella scelta di quali crediti commerciali cedere per ottenere liquidità immediata dagli investitori istituzionali. Un elemento, quest’ultimo, che ne fa oggi uno dei settori a maggior crescita della del fintech italiano, e che consente di collocarlo in forma stabile quale una delle forme di finanziamento complementare rispetto al credito bancario e al factoring stesso, con un aumento del 90% anno su un anno del transato che conferma il crescente interesse da parte delle aziende rispetto alle soluzioni più conosciute.

Insieme, al fianco delle imprese che hanno bisogno di liquidità in tempi brevi e senza mettere a rischio la propria sostenibilità aziendale: questo è l’obiettivo della partnership tra CashMe SpA e Change Capital e che porterà un numero sempre maggiore di piccole e medie imprese a beneficiare della possibilità di cedere i propri crediti commerciali in maniera pro-soluto a investitori istituzionali qualificati tramite la nostra piattaforma di invoice trading online.

Nata a maggio 2019, Change Capital è a tutti gli effetti una scaleup fintech che ha profondamente innovato e rinnovato le modalità di accesso al credito delle PMI, identificando a favore di imprenditori, CFO e responsabili amministrativi i canali e le modalità più idonee a trovare rapidamente le risorse finanziarie necessarie ai propri investimenti o al finanziamento del capitale circolante. Tra queste si aggiunge anche CashMe quale soluzione di invoice trading online e digital reverse.

In questo senso, il percorso comune cominciato oltre due anni fa con i primi contatti tra i team di CashMe SpA e Change Capital è diventato ormai una partnership consolidata, nell’ottica di aiutare i clienti di entrambe le aziende ad accedere più agevolmente e in maniera strutturata alle possibilità di finanziamento messe a disposizione dalle due piattaforme: verticale e specializzata nell’invoice trading e reverse digitale quella di CashMe, generalista e con un ruolo di facilitatore tra aziende e nuovi mercati del credito quella di Change Capital.

A determinare in senso positivo la decisione di ufficializzare il nostro percorso comune è stata la consapevolezza, maturata nel corso del tempo e della collaborazione tra i due team, di essere attori dello stesso mercato e di poter, insieme, offrire un servizio più ampio ai clienti di entrambe le aziende. Change Capital, in particolare, si è dimostrato un partner affidabile in grado di selezionare con cura le aziende proposte ed effettivamente in linea con i criteri dei nostri investitori, e soprattutto in grado di condividere il nostro approccio “phygital” al mercato. Entrambe le realtà, infatti, offrono strumenti tecnologici avanzati accompagnati dalla presenza di consulenti specializzati: un ulteriore punto di contatto su cui costruire l’architettura della nostra comune offerta di servizi fintech.

Parola d’ordine crescita: CashMe chiude il proprio anno solare con una serie di numeri estremamente positivi. Specializzata in invoice trading per le imprese tramite cessione del credito commerciale pro soluto e parte integrante del Gruppo Finservice S.p.A., registra una crescita di fatturato del 250% rispetto all’anno precedente, un incremento di oltre 200 milioni di euro dei volumi di transato ed un EBITDA pari al 56%. Nel corso del 2022 l’impresa, presente con sedi fisiche a Mantova e Milano, ha consolidato la propria posizione nel campo della supply chain finance, puntando sul servizio di reverse digitale per le aziende capo-filiera al fine di consentire loro di sostenere i propri fornitori tramite la cessione pro soluto delle fatture.

I traguardi tagliati di recente non frenano la nostra ambizione – afferma Marcello Scalmati, CEO di CashMe – Nel corso dell’anno corrente prevediamo di sviluppare ulteriormente la linea di servizi per le banche con l’obiettivo di fornire agli istituti finanziari nuovi strumenti digitali di ultima generazione. Entrando più nello specifico, questi sistemi dovranno essere in grado di coniugare rapidità, meno burocrazia e una predisposizione all’ondata di cambiamento prodotta dal fintech. E non è finita qui perché il 2023 segna anche l’inizio del processo di crescita per linee esterne tramite acquisizioni di altri operatori di mercato”. Ma non è tutto perché CashMe è l’unica azienda del proprio settore ad utilizzare un modello operativo phygital.

Questo prende forma, in primo luogo, grazie ad un’innovativa piattaforma digitale di invoice trading che offre l’opportunità ad imprese di tutte le dimensioni di cedere i crediti commerciali verso investitori istituzionali in maniera pro-soluto e senza segnalazione in centrale rischi. Questa digital platform viene affiancata, anzi arricchita dalla professionalità di consulenti in carne ed ossa. Qui entra in gioco Gruppo Finservice S.p.A., organizzazione specializzata in consulenze di finanza agevolata, di cui CashMe fa parte da ben quattro anni. “Siamo un’azienda molto attenta ai trend e alla digitalizzazione – dichiara Guido Rovesta, presidente di Gruppo Finservice S.p.A. – E proprio per questo siamo al fianco di CashMe e della piattaforma messa da loro a disposizione attraverso il nostro centro di sviluppo tecnologico. Stiamo vivendo nel presente con la velocità del futuro e la velocità è la prima necessità delle imprese nel reperimento di risorse finanziarie.”

Dagli 820 milioni di euro in meno delle imprese attive in Veneto ai 214 milioni di euro in meno di quelle localizzate in Liguria: sono queste le due regioni che hanno subito le contrazioni più marcate e rilevanti dei prestiti bancari alle Piccole e Medie imprese italiane tra il 2021 e il 2022, secondo quanto emerge dall’ultima elaborazione dell’Ufficio studi della Cgia di Mestre.

Nel dettaglio, il volume dei prestiti bancari alle PMI si è ridotto nell’arco di poco più di un anno di oltre 5,3 miliardi di euro, in calo da 124 a 118,7 miliardi di euro ottenuti in prestito nel periodo precedente da parte delle aziende con meno di 20 addetti. Al triste “primato” di Veneto e Umbria si aggiungono inoltre Friuli Venezia Giulia (-177,8 milioni) e Liguria (-214,4 milioni di euro).

A livello di singole province, non da ultimo, la situazione appare essere molto più diversificata, con il calo maggiore subito da Sondrio in termini percentuali (-8,32%, pari a 59,8 milioni di euro) e da Venezia in termini di volumi (-173,8 milioni, a fronte di un calo di “soli” 7 punti percentuali). Biella, Caltanissetta, Sassari, Sud Sardegna e Nuoro le uniche province in attivo, seppur di poco.

Le richieste delle PMI alle banche, tuttavia, da tempo non riguardano più solo la disponibilità di maggiori linee di credito. Secondo uno studio realizzato da b-ilty di Gruppo Illimity, infatti, le aziende di dimensioni minori si aspettano di ricevere dalle banche una risposta puntuale, veloce e trasparente alle proprie richieste, attraverso canali digitali o ibridi di contatto e che sappiano valorizzare il fattore umano. Liquidità si, dunque, ma anche servizi innovativi e capaci di far risparmiare tempo ancor prima che denaro.

Flessibilità, personalizzazione, contatto umano: non a caso queste caratteristiche di servizio sono quelle fatte proprie da aziende fintech come CashMe SpA, che offre un servizio di invoice trading e digital reverse basato sull’utilizzo di una piattaforma tecnologica e sulla presenza costante di consulenti dedicati per tutte le esigenze di finanziamento del capitale circolante. Una scelta precisa, compiuta fin dall’inizio, che oggi si rivela essere tanto più importante quanto più gli istituti di credito tradizionale tendono a ritirarsi dal loro ruolo tradizionale di supporto all’economia reale in quasi tutti i territori italiani.

In un contesto di generale rafforzamento dei criteri di valutazione del rating aziendale imposto dagli organismi di controllo, di crescita dei tassi di interesse e di innalzamento dei capitali di vigilanza per le banche più a rischio, non vi è da sorprendersi che le prospettive per il mercato del credito nei prossimi mesi possano rivelarsi ancora eccessivamente ottimistiche. Per questi motivi è importante per gli imprenditori, soprattutto quelli delle aziende piccole e medie, iniziare fin da subito a esplorare canali di finanziamento alternativi, soprattutto se si trovano in quelle regioni o province più penalizzate di altre.

Era Il 2% nel 2021, è aumentato al 2,3% nel 2022 e nel 2023 potrebbe quasi raddoppiare arrivando fino al 2,3% del totale: è questo il tasso di deterioramento delle aziende italiane secondo l’Outlook Abi-Cerved sulle stime dei flussi dei nuovi crediti deteriorati delle imprese.

Il peggioramento, innescato dall’indebolimento della domanda e dai rincari sempre più urgenti delle materie prime e dell’energia, era atteso da tempo ma solo ora è arrivata la conferma: dopo dieci anni i crediti deteriorati tornano a salire, e questa tendenza non accenna a invertirsi.

L’accelerazione, in particolare, ha riguardato il secondo semestre del 2022 con un deterioramento del credito stimato a un valore medio del 2,52%, in aumento rispetto ai dati comunicati dalla Banca d’Italia a fine giugno dell’anno precedente e con una tendenza in accelerazione.

“I dati consolidati del 2021 – si legge nel report – segnano il primo aumento su base annuale dell’importo di nuovi prestiti in default originati da crediti a imprese dal 2013. Per il 2023 si prevede un incremento del tasso di deterioramento del credito alle imprese del 3,8%, un livello che non si raggiungeva dal 2017“.

Se è vero che questi dati restano abissalmente lontani dai picchi raggiunti in occasione della crisi sovrana, e sono previsti comunque in discesa nel corso del 2024, nondimeno la notizia rimane quella di un’inversione di tendenza che nel corso dell’ultimo anno si è fatta sentire per prima sulle spalle delle microimprese, il comparto con il maggior tasso di deterioramento dei crediti.

Nel 2024, si legge sempre nel report, toccherà alle costruzioni essere il comparto con il tasso di deterioramento più elevato, seppur minore rispetto al periodo pre-Covid e con l’ausilio da non sottovalutare degli investimenti previsti dal PNRR per far fronte alla crisi, mentre l’industria sarà il comparto meno colpito dalla tendenza in atto.

L’impatto sull’economia? “Moderato“, secondo gli autori del report, in virtù di una maggiore capacità del mercato del credito di far fronte alle crisi e gestire i volumi di NPL, e della possibilità per le aziende di ricorrere a strumenti di finanza alternativa capaci di compensare il venir meno dei prestiti bancari, soprattutto in periodi dove maggiore è lo stress finanziario.

Quattro imprese su dieci: questa è la percentuale del campione di piccole e medie aziende italiane che, nel corso del 2022, hanno avviato un percorso di transizione sostenibile secondo gli ultimi dati del Kaleidos Impact Watch. Entro il 2024, secondo la medesima fonte, oltre la metà delle PMI avrà effettuato almeno un investimento in sostenibilità ambientale (dalla transizione verso energie pulite e rinnovabili alla riduzione o riutilizzo di rifiuti e scarti di lavorazione). Oltre il 95% delle aziende intervistate ha dichiarato di aver già ottenuto benefici da questo processo.

A fronte di dati così evidenti, tuttavia, rimane l’incognita che grava sul futuro di tutte le altre imprese: in un Paese come il nostro caratterizzato da un tessuto imprenditoriale di dimensioni aziendali relativamente contenute, non sono pochi i motivi che possono frenare un imprenditore e il suo team rispetto alla scelta di intraprendere un percorso virtuoso, che tuttavia richiede un certo investimento iniziale per essere avviato, soprattutto dopo che quest’ultimo è stato rimandato per anni.

Come affermato da Emanuela De Sabato, presidente e fondatore di Futura Law Firm e valutatrice d’impatto in un lungo e interessante post su LinkedIn, a volte non sono sufficienti tutti i discorsi e i numeri sulla sostenibilità per far compiere quel passo in più alle aziende di dimensioni più contenute. “Di fronte alle iniziative e alle svolte dei giganti – afferma l’autrice del post – non so come una piccola impresa possa identificarsi e sentire di avere gli strumenti adeguati“. Il problema, secondo l’esperta, non sarebbe tanto la mancanza di risorse economiche quanto la convinzione di non avere né il tempo, né le risorse umane sufficienti da dedicare al cambio di rotta.

A convincere molti imprenditori, secondo noi, non sarà tuttavia solo la tendenza a imitare i comportamenti dei propri simili, né massicce campagne di sensibilizzazione, quanto la consapevolezza che le pressioni che subiranno da qui ai prossimi anni per intraprendere un percorso sostenibile saranno tante e tali da farli rimpiangere di non averlo fatto prima: se la regolamentazione fino ad oggi è stata benevola nei confronti delle aziende di dimensioni minori non è detto che sarà lo stesso anche in futuro, i clienti si aspetteranno iniziative e azioni concrete di sostenibilità e le aziende capofiliera utilizzeranno tutto il proprio soft power per convincere le aziende fornitrici ad adeguarsi a standard qualitativi e sostenibili sempre più alti. Infine, il mondo del credito darà la “spinta” decisiva.

Come ricordato da Marco Preti, CEO di Cribis, in un articolo per Econopoly, le modalità di gestione del rischio del credito stanno rapidamente cambiando: “oggi è imprescindibile considerare i rischi ESG delle imprese, non solo nel breve ma anche a medio e lungo termine. Ormai è acclarato che questi elementi impatteranno in modo determinante sulla redditività delle imprese e quindi sulla loro capacità di rimborsare il debito“, scrive l’esperto, che ricorda anche come la rischiosità creditizia di un’impresa a forte vocazione sostenibile risulti inferiore del 50% rispetto alla media. Un numero che influenzerà nei prossimi anni in maniera decisiva le decisioni delle banche in merito alla concessione o meno dei crediti richiesti dagli imprenditori. In questo senso, il mondo bancario svolgerà con ogni probabilità un ruolo decisivo nel sensibilizzare gli imprenditori, anche i più reticenti, a compiere un passo di importanza fondamentale sia per la propria azienda, sia per il futuro dell’ambiente e della società in cui vivono.

Molte PMI oggi si trovano ad affrontare sfide eccezionali. Il nuovo Codice della Crisi e dell’Insolvenza come può intervenire in loro aiuto?

Le piccole e medie imprese italiane, che sono sicuramente l’ossatura della nostra economia, negli ultimi anni hanno dovuto fronteggiare sfide eccezionali quali pandemia, inflazione, aumento dei tassi di interesse, guerra, scarsità di materie prime e costi energetici in grande aumento.

In questo contesto straordinario, il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) può sicuramente venire in soccorso delle PMI, avendo tra i suoi principi ispiratori proprio quello della salvaguardia della continuità aziendale, a discapito di accordi liquidatori resi più onerosi, e quello della buona fede e correttezza nelle trattative, richiamando quindi tutti i soggetti coinvolti da una crisi aziendale (creditori e debitore) a lavorare insieme per la ricerca di soluzioni di risanamento. Per quanto riguarda la salvaguardia della continuità aziendale, il CCII tutela ora quest’ultima al pari della par condicio creditorum, purché ovviamente il risanamento risulti più conveniente della liquidazione, e ciò si esplica sotto vari profili, quali, a titolo esemplificativo, la possibilità di realizzare un concordato in continuità sia in via diretta che indiretta, l’assenza di percentuali minime ai creditori chirografari nel concordato in continuità rispetto al concordato liquidatorio e la possibilità di soddisfazione extra concorsuale dei creditori strategici essenziali all’attività d’impresa.

Il CCII prevede nel concreto degli strumenti in grado di anticipare situazioni di crisi?

La tempestività dell’intervento di risanamento aumenta in misura significativa le probabilità di successo di un turnaround e, pertanto, un’ottica forward-looking che consenta di anticipare i segnali di crisi è fondamentale. Il Codice della crisi riconosce l’importanza di questo approccio ed ha quindi rafforzato l’obbligo per tutte le società di dotarsi di adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili in grado di prevedere e di contrastare la crisi d’impresa. Tale previsione normativa deve affiancarsi all’intervento e al supporto dei consulenti e manager dell’impresa, al fine di assistere imprenditori e amministratori nell’implementare un sistema di KPI (Key Performance Indicators) che colga per tempo i segnali della crisi, anche quando inizialmente sono deboli, ma ugualmente identificabili.

Tali indicatori, a mio avviso, devono essere in grado di cogliere le difficoltà ben prima che siano segnalate dagli warning derivanti da quando previsto dal CCII all’art. 3 comma 4: retribuzioni scadute da 30 giorni per almeno il 50% dell’ammontare complessivo mensile; fornitori scaduti da almeno 90 giorni superiori a quelli non scaduti; banche scadute o in extra fido da più di 60 giorni per almeno il 5% delle esposizioni; esistenza di una o più delle esposizioni debitorie previste dall’articolo 25-novies, comma 1 relative alle segnalazioni dei creditori pubblici qualificati. Gli indicatori previsti dal CCII sono a mio avviso troppo tardivi e unicamente rivelatori di uno stato di crisi già avanzato e questo rappresenta sicuramente un punto di miglioramento su cui intervenire.

Come deve evolvere l’approccio al Corporate Turnaround in questo nuovo contesto?

Le sfide che le imprese stanno fronteggiando sono di una tale complessità e straordinarietà che solo un’assistenza multidisciplinare può assicurare elevate possibilità di successo. L’approccio al Corporate Turnaround, pertanto, deve coinvolgere competenze manageriali in situazioni distressed, finanziarie e legali, che devono essere espresse da un pool di professionisti e manager specializzati, sia interni che esterni all’impresa. Tale team deve trovare la sua guida nel CRO, Chief Restructuring Officer, che è il manager della crisi con provata esperienza di turnaround management in contesti di crisi finanziaria e che abbia anche la necessaria conoscenza degli strumenti legali offerti alle imprese in crisi.

Gli imprenditori, che spesso si trovano ad affrontare situazioni di crisi per la prima volta e faticano quindi a decidere a chi affidarsi, possono selezionare i CRO nell’albo dei CTP, Certified Turnaround Professionals, gestito da EACTP, la European Association of Certified Turnaround Professionals.

Quale sarà, infine, il ruolo degli strumenti di finanza alternativa per prevenire l’aggravarsi della crisi?

Nei processi di turnaround è sempre fondamentale la velocità di azione e la specializzazione degli operatori finanziari che assistono le imprese in crisi. Tra i cosiddetti strumenti definiti di Fintech, o di finanza alternativa, una primaria importanza è rivestita dall’invoice trading tramite lo smobilizzo delle fatture commerciali, cioè la cessione di un credito commerciale, generalmente pro soluto.

L’invoice trading permette alle imprese di migliorare la gestione del cash flow, ottenendo un anticipo di cassa, dopo aver valutato non tanto il rating della società in crisi quanto quello del debitore ceduto e questo meccanismo permette di sostenere anche imprese con un rating critico, dove è improbabile che le banche concedano nuove linee di anticipo fatture, aumentando il proprio livello di rischio. Un altro aspetto importante che caratterizza i soggetti impegnati nell’invoice trading è la tempestività di risposta nei confronti delle imprese in crisi cedenti i crediti, garantita anche dall’utilizzo di piattaforme digitali innovative che facilitano l’interazione tra le PMI cedenti il credito e l’investitore terzo, velocità di azione che è vitale nei risanamenti aziendali.

Alberto Cerini
Board Member European Association of Certified Turnaround Professionals

Enel, Eni, Ferrari, Fs, Generali, Marcegaglia Steel, Pirelli, Poste Italiane, Unicredit, Webuild, ma anche le principali PMI globali dell’industria, della finanza, dei servizi: sono questi i protagonisti della classifica dei “200 leader della sostenibilità” realizzata annualmente dal Sole 24 Ore e dalla società di analisi Statista, che dimostra come né la pandemia né la guerra in corso abbiano invertito il cammino verso la sostenibilità attraverso obiettivi e iniziative concrete.

Rispetto alla prima edizione, ora sono sempre di più le aziende e le PMI sostenibili e trasparenti

Rispetto alla prima edizione risalente al 2021, il report fotografa ora una situazione in cui quasi tutte le grandi aziende e le principali PMI hanno intrapreso politiche di sostenibilità complete, trasparenti e con chiaro riferimento ai 17 obiettivi ONU di sviluppo sostenibile da raggiungere entro la fine del decennio. Elemento ancora più importante, in questo contesto, il fatto che molte delle aziende prese in esame abbiano cominciato a includere le performance ESG nei cosiddetti Rapporti di sostenibilità, o nelle Dichiarazioni non finanziarie allegate al bilancio o nei bilanci integrati.

In questo senso, è importante sottolineare come la compliance normativa – ovvero l’obbligo di rendicontare le attività sostenibili – sia al momento obbligatoria solo per le grandi aziende. Sorprende in positivo, quindi, che le PMI più importanti a livello globale siano già impegnate da mesi a rendicontare le proprie iniziative in tal senso senza alcun intervento esterno: un’intuizione che potrebbe rivelarsi proficua sia nell’immediato, sia ancor più nel lungo periodo. Crisi di mercato dei prodotti e dei metodi di produzione tradizionali, richieste da parte dei clienti e dei consumatori e passaggio generazionale hanno indotto questo cambio, di mentalità ancor prima che di organizzazione.

Quante sono le PMI davvero pronte ad abbracciare il cambiamento?

Si pone, a questo punto, la domanda che né i report attuali né probabilmente quelli futuri riusciranno a risolvere: fino a che punto le PMI di ogni ordine e grado, escluse dai radar dei ricercatori o troppo impegnate a concentrarsi sul business per rispondere a questo tipo di sollecitazioni, hanno colto il vento del cambiamento e si stanno impegnando fin d’ora ad adeguarsi alla trasformazione in atto? Il report del Sole 24 Ore e di Statista, infatti, è solo l’ultimo segnale di quanto la sostenibilità sia diventata fondamentale nei rapporti con i clienti come con i fornitori, nelle relazioni con le comunità come con gli enti regolatori. Seguire l’esempio delle aziende “leader”, soprattutto di quelle simili per settore e dimensioni, diventa a questo punto una scelta strategica capace di assicurare la continuità della propria azienda nel lungo periodo: fino a che punto le “altre” PMI sono davvero pronte a farlo?

In attesa che entri nel vivo il dibattito sul potenziale Energy Recovery Fund, che venga fissato un tetto al prezzo del gas, che i meccanismi e le regole di formazione del prezzo dell’elettricità vengano revisionati e i crediti d’imposta ulteriormente potenziati, resta l’amara realtà: sempre più piccole e medie imprese faticano a far quadrare i bilanci, a causa dell’impennata dei costi delle bollette.

Centinaia di migliaia di PMI a rischio per il caro bollette, milioni di posti di lavoro in bilico

Secondo Confartigianato sarebbero infatti 881 mila le piccole e medie imprese a rischio a causa del caro bollette, per un totale di 3,5 milioni di posti di lavoro potenzialmente in pericolo su un totale di 43 settori diversi. La regione più esposta è, a sorpresa, la Lombardia, con 139 mila aziende e 751 mila addetti a rischio, seguita da Veneto ed Emilia-Romagna.

Secondo Confcommercio, sarebbero oltre 120 mila le piccole e medie imprese del solo terziario a rischio, con una perdita potenziale di oltre 370 mila posti di lavoro (senza tener conto delle imprese più grandi). Ragionando in termini percentuali, inoltre, il totale delle PMI non in grado di pagare le bollette da qui al termine dell’anno potrebbe sfiorare il 30% del totale secondo le ultime analisi della Cgia di Mestre.

Un continuo “drenaggio” di risorse che va a intaccare la liquidità disponibile in cassa

Di tutte le ricerche disponibili, quella che fotografa con più lucidità la realtà ci sembra essere tuttavia quella di Confesercenti. Secondo quest’ultima, relativa alle sole imprese del commercio e del turismo ma valida anche per molti altri settori, la spesa che le aziende di settore dovranno sostenere nel 2022 a causa del caro energia sarà pari a 15 miliardi di euro rispetto agli 1,7 miliardi raggiunti nel non lontano 2019.

Un vero e proprio “drenaggio” di risorse che va a intaccare la liquidità disponibile in cassa, con conseguenza finora inimmaginabili per via di un possibile “effetto domino” verso famiglie, imprese, occupazione e consumi. Un’emergenza che attende da diverse settimane l’arrivo di una delle tante soluzioni fin qui prospettate, nella speranza che la combinazione di più di una di esse possa offrire alle aziende oggi in difficoltà un’opportunità per oltrepassare il momento più difficile e guardare con ottimismo al futuro.