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Oltre 118.000 aziende associate, 1,1 miliardi di euro di garanzie in essere, un solo Consorzio Unitario: sono questi i numeri di Artigiancredito, tra i più rappresentativi consorzi italiani di garanzia per l’accesso al credito delle Piccole e Medie imprese, da questo mese partner di CashMe SPA.

La partnership, annunciata ufficialmente in occasione del II Meeting Artigiancredito, ha come obiettivo quello di fornire alle aziende associate al consorzio la possibilità di attivare il nostro servizio di invoice trading online a condizioni dedicate per tutti gli iscritti.

Stefano Sainati (a destra), co-founder di CashMe, firma la partnership con Fabio Petri (a sinistra), presidente di Artigiancredito

In questo modo, le piccole e medie imprese che fanno parte di Artigiancredito hanno la possibilità di cedere in maniera rapida e trasparente i loro crediti commerciali agli investitori istituzionali attivi sulla nostra piattaforma, ottenendo liquidità immediata per il finanziamento del proprio capitale circolante e migliorando – in prospettiva – il proprio rating bancario grazie al deconsolidamento dei crediti dal bilancio.

La partnership tra Artigiancredito e CashMe nasce, non casualmente, in un momento cruciale per il futuro di tantissime piccole e medie imprese italiane – dichiara Marcello Scalmati, CEO e co-founder di CashMecostrette negli ultimi mesi a fare i conti con l’irrigidimento delle condizioni di accesso al credito, la crescita dei prezzi delle materie prime e la contrazione dell’economia. In questo contesto, la partnership offre alle aziende membri del Consorzio l’opportunità di ampliare i propri canali di finanziamento grazie al sostegno del nostro team di esperti e alle possibilità di disintermediazione offerte dalla tecnologia che rendono l’invoice trading online uno strumento di finanza alternativa accessibile a tutti”.

Nell’ambito del progetto di digitalizzazione di Artigiancredito, abbiamo deciso di proporre ai nostri soci soluzioni alternative per ottenere liquidità immediata attraverso partner di fiducia come Cashme – dichiara il presidente di Artigiancredito Fabio Petriche offre alle imprese la possibilità di cedere le proprie fatture ad investitori istituzionali attraverso una piattaforma web. In questo momento di incertezza economica presentiamo alle PMI italiane soluzioni semplici e concrete per lo sviluppo del proprio business attraverso collaborazioni con professionisti dell’Invoice trading come il team di Cashme che ci supporta in quello che è da sempre il nostro obiettivo di affiancamento e sostegno alle Imprese del nostro territorio”.

La buona notizia è che le imprese italiane sono state in grado di sopperire al flusso negativo di nuovi prestiti, fatto registrare dalle banche nel corso di tutto il 2023, grazie all’accumulo di riserve di liquidità nel periodo Covid, in alcuni casi maggiore rispetto alla media dell’area Euro. La cattiva notizia è che la contrazione dei prestiti non si ferma, soprattutto quelli a breve termine e che più di altri servono a sopperire le esigenze di capitale circolante delle aziende a fronte di una fiammata inflattiva in corso e che non accenna a diminuire.

I numeri del factoring per il 2023-2024: il report Assifact

Eppure, secondo l’Osservatorio Factoring 2023 di AssifactNever normal? Il 2024 del factoring dopo pandemia e shock energetici” il calo dei prestiti sembra essere guidato più dalla domanda, che dall’offerta. L’aumento dei tassi di interesse, il calo del fabbisogno per la spesa in investimenti fissi e proprio il maggior ricorso all’autofinanziamento in virtù delle riserve accumulate durante gli anni della pandemia hanno portato numerose imprese a diversificare le fonti di finanziamento rispetto al canale bancario, anche se va notato come le imprese di dimensioni minoro godano oggi di minori margini disponibili soprattutto sui fidi bancari di volumi inferiori.

In questo contesto, non stupisce come il mercato del factoring continui la sua fase positiva raggiungendo un turnover sostanzialmente simile a quello del 2022, con 206,71 miliardi di volumi complessivi a settembre 2023 rispetto ai 207,46 miliardi dell’anno precedente. Se è vero che gli anticipi per operazione di factoring sono andati incontro a una contrazione (-5,17%), nondimeno secondo il report di Assifact il calo è inferiore rispetto a quello fatto registrare dai prestiti a breve termine alle imprese nel loro complesso (-9,14% per quelli a scadenza entro un anno).

Previsioni ottimiste e strumenti alternativi al factoring stesso

Le previsioni degli operatori restano quindi ottimiste per tutto il 2023: il mercato del factoring si consoliderà rispetto al 2022, con un turnover in calo “solamente” dello 0,49%, gli impieghi in aumento dello 0,7% e l’outstanding in crescita dello 0,53%, con una crescita prevista del 3,38% nel 2024 del valore interpolato medio dei diversi scenari di previsione (e con previsioni ancora più ottimiste da parte degli operatori di factoring). Difficile dargli torto, se si tiene conto che anche secondo Unimpresa i prestiti destinati alle aziende sono passati da 676,4 miliardi di euro a settembre 2022 ai 619,5 miliardi di euro a settembre 2023, con un calo in tutte le tipologie di finanziamenti.

Resta, in questo contesto, la consapevolezza che gli imprenditori sembrano aver appreso la lezione: sempre meno dipendenti da un unico canale di finanziamento, essi dispongono oggi di una serie di strumenti in grado di venire incontro alle loro esigenze anche in misura più flessibile e immediata rispetto al factoring stesso. Invoice trading, dynamic discouting, factoring digitale sono infatti alcuni degli strumenti resi possibili dall’innovazione generata dal settore fintech per fornire un ampio ventaglio di alternative a fronte di tassi di interesse destinati a rimanere elevati ancora a lungo e a un progressivo ritrarsi degli istituti di credito, soprattutto dalle aziende di dimensioni minori e dai territori periferici: la buona notizia, in questo caso, è che altri hanno già preso il loro posto.

Non sei ancora cliente CashMe?

Secondo il modello messo a punto dall’Osservatorio Innovazione Digitale nelle PMI emerge che il 55% delle piccole e medie aziende italiane sia oggi in una condizione di arretratezza rispetto al digitale, mentre il 45% ha già avviato con intensità differenti percorsi di digitalizzazione, dimostrando più attenzione alla crescita delle competenze digitali e all’impiego diffuso delle tecnologie. In particolare, il 9% di queste aziende appartengono al segmento da noi definito come “Avanzato“, qualificato anche da una maggiore attenzione per le strategie collaborative.

Rispetto alla precedente rilevazione assistiamo a un peggioramento dei segmenti più evoluti (-5%), ma non bisogna farsi ingannare. La spiegazione non sta nella disaffezione verso il digitale, ma nella necessità di risolvere problemi contingenti – crisi delle supply chain e crisi energetica – che hanno spostato l’attenzione verso problemi da risolvere nell’immediato, pena il rischio di sopravvivenza dell’azienda. Gli investimenti nel digitale sono stati così spostati in avanti sull’asse temporale, mentre le aziende che negli anni precedenti avevano già compreso l’importanza della tecnologia hanno confermato l’interesse verso il tema.

Nello specifico, il modello di maturità digitale messo a punto dall’Osservatorio ha individuato quattro profili che ci permettono di identificare l’approccio delle aziende alla cultura digitale, alla trasformazione nei processi lavorativi e alla collaborazione con l’ecosistema esterno. In questa classificazione il 16% sono imprese “Scettiche“, poco attente agli investimenti e alle competenze digitali, il 39% risultano “Timide“, con un buon livello di cultura e uso del digitale ma non ancora pronte a impieghi trsversali in azienda, il 36% sono aziende “Convinte” e il 9% “Avanzate”, cioè dotate di un livello ottimale di cultura e digitalizzazione dei processi lavorativi e pronte a collaborare con soggetti ad alto tasso tecnologico, come le startup, utilizzando bene i contributi europei e i bandi a sostegno della digitalizzazione.

In questo contesto, i maggiori ostacoli per un imprenditore interessato alla digitalizzazione riguardano la propria sfera individuale e quella dell’ecosistema di appartenenza. Se è vero che la cultura gestionale di alcune aziende non riconosce al digitale il ruolo di alleato nello sviluppo dell’impresa, dall’altro lato l’ecosistema di riferimento – professionisti, software house, banche, associazioni di categoria, innovation hub territoriali – spesso non è in grado di dare un contributo di sostanza al miglioramento della cultura gestionale delle imprese. Ciò è tanto più urgente quanto più diminuiscono le dimensioni aziendali: in questo caso, la quotidianità non consente all’imprenditore di trovare il tempo adeguato da dedicare alla programmazione e allo sviluppo.

L’ecosistema, nelle sue diverse espressioni, deve quindi cambiare i propri paradigmi tradizionali per comprendere a fondo le problematiche sui mercati di sbocco e di approvvigionamento delle aziende, formulando ipotesi collaborative e in grado di generare reale valore all’azienda all’interno della gestione caratteristica, deputata a remunerare il capitale di rischio. Il vero valore per l’impresa non è infatti quello di acquistare la miglior soluzione esistente sul mercato, ma acquistare quella più funzionale al raggiungimento degli obiettivi strategici definiti, relazionandosi con dei partner tecnologici in grado di ascoltare non solamente le richieste espresse dai clienti ma di individuare quelle latenti, attraverso la raccolta di informazioni sui mercati di sbocco e di fornitura. In questo modo è possibile sviluppare una relazione duratura, in cui gli obiettivi dell’impresa diventano anche gli obiettivi del fornitore, che li interiorizza, comprendendoli appieno e mettendoli a terra attraverso proposte in linea con le reali strategie aziendali.

Claudio Rorato
Direttore Osservatorio Innovazione Digitale nelle PMI del Politecnico di Milano

Per migliorare il legame con la comunità e i territori, accrescere il senso di appartenenza e la soddisfazione di vita dei dipendenti, ma anche il coinvolgimento e il dialogo con i clienti, le relazioni di filiera e distrettuali e, infine, la stessa competitività: sono questi i benefici attesi da una maggiore coesione delle imprese secondo l’ultimo rapporto annuale presentato in occasione dell’incontro “Coesione è competizione. La forza dei Territori nella Transizione Verde“, promosso da Fondazione Symbola, Unioncamere e Intesa Sanpaolo e presentato a Mantova nel corso di questo weekend.

Ma chi sono, in sintesi, le imprese “coesive”? Sono tutte quelle aziende capaci di includere nelle proprie attività attori esterni e non necessariamente provenienti dal mondo for-profit: sono coesive le imprese che collaborano con università, professionisti, creativi esterni per favorire la nascita di nuovi servizi e prodotti, ma lo sono anche quelle che contribuiscono alla propria comunità tramite l’ingaggio di enti del terzo settore o di esponenti della società civile locale.

Il livello di coesione di un’impresa si misura anche in termini di capacità di relazione con i clienti, non più limitata al solo scambio utilitaristico del “customer care” ma declinata in termini di ascolto delle loro esigenze, co-progettazione di prodotti e trasformazione dei clienti stessi in ambassador dell’impresa. Sono coesive, infine, quelle aziende capaci di passare da una relazione di dipendenza con la banca a un rapporto sempre più egualitario, trovando negli istituti finanziari – o in altri operatori specializzati, aggiungeremmo noi – un partner fondamentale per riorganizzare la propria filiera.

Tutto questo non si traduce solo in miglioramenti qualitativi, ma anche con impatti concretamente misurabili sul proprio business: secondo la Fondazione Symbola, nel 2023 il 55,3% delle aziende coesive prevedono un aumento del fatturato (rispetto al 42,3% di quelle che non rientrano in questa categoria), il 34,1% hanno intenzione di incrementare la propria forza lavoro (rispetto al 24,8% delle altre) e il 42,7% prevedono una crescita delle esportazioni (versus il 32,5% delle altre tipologie), mentre attenzione alla sostenibilità e investimenti nel digitale presentano valori quasi doppi rispetto al resto delle aziende.

In questo contesto, non sorprende infine il diverso rapporto esistente tra le aziende coesive e il proprio ecosistema di riferimento, locale ma soprattutto nazionale: rispetto alle aziende tradizionali, quelle coesive sono intenzionate ad aumentare nel 24% dei casi la percentuale di fornitori locali o extra regionali (rispetto al 19% delle altre) e pongono una maggiore attenzione alla qualità dei prodotti nei criteri principali di selezione dei fornitori (83,8% vs 76,9%). Un approccio che potremmo definire lungimirante, soprattutto in tempi di “backshoring” delle filiere produttive, e che rappresenta un’importante soluzione di continuità rispetto agli ultimi anni, nell’ottica di rafforzare i legami non solo con i propri fornitori o clienti, ma anche con quella comunità di stakeholder che rappresenta oggi più che mai la vera forza di un’impresa rispetto alle altre.

Quattro su dieci: è il numero medio di imprese italiane che dichiarano di ricevere pagamenti puntuali al termine del primo trimestre 2023, in lieve peggioramento rispetto al trimestre precedente (40,8% vs 40,9%) ma in netto miglioramento rispetto all’ultimo trimestre di un anno fa quando erano al 38,5% del totale. Crescono, seppur di poco, i ritardi superiori ai 30 giorni, attestati al 9,5% del totale.

Sono questi i dati principali che emergono dalla XIX edizione dello Studio Pagamenti di Cribis, realizzato con il contributo del partner Dun & Bradstreet e presentato alcuni giorni fa a Milano nel corso di un evento in collaborazione con il Corriere della Sera, e che dimostrano quello che è già da tempo un fenomeno consolidato: Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto si confermano le regioni con la maggior percentuale di pagamenti regolari (oltre il 48%), mentre Sicilia e Calabria si attestano in fondo alla classifica.

Tra i vari settori oggetto di indagine emerge come le imprese che denunciano i maggiori ritardi nei pagamenti siano quelle del settore trasporti, con una crescita dell’8,2% rispetto al trimestre precedente e addirittura del 54% rispetto alla fine del 2022 per le fatture saldate oltre i 30 giorni di attesa. Al secondo posto si collocano le industrie chimiche e della ceramica, mentre Grande Distribuzione, Distribuzione Organizzata, Energy & Telco sono i settori dove le aziende hanno visto una riduzione di oltre il 20% dei ritardi più gravi, recuperando ampiamente il gap generato dalla crisi pandemica ed economica.

A un livello più ampio, spiace constare come l’Italia rimanga ampiamente indietro rispetto alle performance degli altri Paesi avanzati: a fronte di una puntualità del 40% di quelle italiane, le imprese francesi e spagnole dichiarano percentuali vicine al 50% mentre al primo posto in termini di rapidità di incasso si collocano Danimarca con il 91%, seguita da Polonia, Ungheria e Olanda con oltre il 70% di pagamenti puntuali. Spicca, in questo scenario, il caso portoghese, dove l’incremento dei pagamenti puntuali rispetto alla fine del 2021 è stato dell’ordine del 20%: segnale che importanti progressi possono essere raggiunti su questo fronte, soprattutto in un momento in cui inflazione e aumento dei costi di finanziamento impongono alle aziende una maggiore prudenza nella gestione dei flussi di cassa e nelle modalità di accesso alla liquidità.

La crisi pandemica, la guerra, la crescita dei costi delle materie prime, l’inflazione, le incertezze geopolitiche, ma anche la crescente pressione normativa, le richieste sempre più esigenti dei consumatori e degli investitori: è difficile oggi stimare con esattezza quali siano le cause esatte che hanno portato un numero crescente di aziende a prestare un’attenzione crescente al rispetto dei criteri ESG e il proprio impatto su ciascuno di essi, anche attraverso la scelta dei fornitori da impiegare nella realizzazione di prodotti e servizi.

Non sorprende quindi che, come ricordato anche da un articolo pubblicato sul blog Econopoly del Sole 24 Ore da Giulia De Vendictis, Public Funding & Grants Specialist di MET Devlopment (MAIRE Group), le imprese oggi siano attente non solo a farsi assegnare un rating ESG, ma anche assegnarne uno alle proprie controparti in qualità di capofiliera. In futuro, quindi, sarà sempre più abituale sentir parlare di “Sustainable Supply Chain” (SSC) per riferirsi a un modo sostenibile di concepire e strutturare le catene di approvvigionamento, e di “Sustainable Supply Chain Finance” nel favorire questa transizione.

L’analisi dei fornitori realizzata tramite i criteri ESG per vie interne o tramite information provider esterni è un aspetto critico da valutare, ma non è quello che ci interessa approfondire nello specifico in questo articolo. Quello che è importante sottolineare, infatti, è l’importanza crescente della sostenibilità non solo dal punto di vista dell’etica, ma anche dal punto di vista delle conseguenze per il fatturato di ogni singola azienda e delle sue reali capacità di mantenere rapporti di lavoro, contratti in essere, e di raccogliere finanziamenti sui mercati dei capitali o in quello bancario a condizioni più agevolate di altre.

La valutazione ESG dei fornitori non rappresenta, in questo senso, un punto di arrivo ma uno di partenza: in base al punteggio ottenuto, essi possono aspirare a ricevere forme diverse di finanziamento a condizioni migliori rispetto a coloro che hanno ricevuto un punteggio inferiore – ad esempio, nell’accesso a programmi di cessione dei crediti commerciali tramite reverse factoring stipulati dall’azienda capofiliera per favorire il pagamento anticipato delle fatture dei fornitori in deficit di liquidità – oppure essere del tutto esclusi da programmi di questo tipo in caso di un punteggio ampiamente insufficiente, con ovvie conseguenze negative in termini di competitività, costo dei finanziamenti e relazioni con l’azienda cliente.

Pur in un contesto difficile, determinato da una cultura aziendale ancora in procinto di evolversi e dalla difficoltà di ottenere valutazioni ESG basate su dati oggettivi e misurabili, resta un cambio di paradigma che si preannuncia come storico: in futuro, la scelta dei fornitori e l’accesso di questi ultimi ai diversi strumenti di supply chain finance non dipenderà più unicamente dalla qualità del lavoro svolto, dalla convenienza dei prezzi o da altri criteri tradizionalmente utilizzati, ma in misura crescente anche dall’impegno concreto e misurabile di questi ultimi sul fronte della sostenibilità, con meccanismi di incentivazione direttamente proporzionali ai risultati conseguiti e alla capacità di prepararsi per tempo al cambiamento in atto.

Noi di CashMe, in questo scenario, abbiamo da tempo incentivato l’ingresso di investitori istituzionali specializzati nell’acquisto di crediti commerciali ESG-compliant all’interno della nostra piattaforma digitale di invoice trading e digital reverse, e siamo consapevoli che il sostegno alla sostenibilità che possiamo dare in quanto esponenti della finanza alternativa è tanto necessario quanto importante per la diffusione di nuove pratiche sostenibili: tanto più, è il caso di aggiungere, se non saremo solo noi e pochi altri attori a fare un passo in questa direzione, ma se più in generale il settore del fintech saprà cogliere al volo l’opportunità di rispondere a un bisogno sempre più diffuso a tutti i livelli della società e del mondo dell’impresa.

Il factoring gode di ottima salute, e i motivi sono da ricercarsi nella capacità di questo strumento di rispondere a una molteplicità di bisogni di finanziamento delle aziende pur a fronte di una certa rigidità dei processi. È quello che emerge dal sondaggio KPMG per conto dell’associazione Assifact secondo il quale più dell’80% delle aziende intervistate esprime un giudizio variabile dal “buono” all'”ottimo” su questa forma di finanziamento complementare all’anticipo fatture bancario.

Nel dettaglio, a far pendere l’ago della bilancia dei giudizi in favore del factoring sono diverse qualità dello strumento che non sempre sono conosciute dai non addetti ai lavori. Per la maggioranza delle imprese intervistate, il 28,6%, il factoring è una forma di finanziamento complementare al credito bancario mentre per una percentuale analoga di intervistati (24,8%) esso è un modo per ottimizzare il capitale circolante attraverso l’eliminazione dei crediti dal bilancio. Al terzo posto si collocano coloro che lo ritengono una garanzia del buon fine dei crediti commerciali (18,1%).

Minoritari, ma non per questo meno importanti, le opinioni di chi ritiene che il factoring sia uno strumento utile a gestire i crediti commerciali in maniera professionale (13,9%) e chi invece ne fa uso in maniera completamente alternativa, per non dire opposta, al credito bancario (11,3%). Scarsa, per non dire assente, la percentuale di coloro che ricorrono al factoring quale forma di recupero di crediti insoluti o problematici (2,5%) e di chi invece non ha ancora sufficiente esperienza o consapevolezza per esprimere opinioni informate sull’argomento (0,8%).

Da notare, inoltre, come la qualità del giudizio cambi in funzione della dimensione delle imprese: se per quelle di dimensioni maggiori è l’ottimizzazione del bilancio l’aspetto più importante, per quelle più piccole è la protezione delle perdite sui crediti e la gestione del rischio l’aspetto di maggior attrattiva. Scontata la preferenza delle aziende nei confronti dello strumento: su una scala di 1 a 4, in prima posizione si colloca proprio il factoring con 3,5, rispetto all’anticipo fatture (3,2) e all’1,9 dell’invoice trading online, meno diffuso dei primi due ma in grande crescita come dimostrano i dati recenti del Politecnico di Milano.

Resta agli atti, in questo senso, una straordinaria performance fatta registrare nel corso degli ultimi anni: la crescita, stabilmente a doppia cifra eccetto per le fasi intermedie della pandemia, ha portato il factoring a un turnover complessivo di oltre 287 miliardi di euro nel solo 2022, con un aumento del 14,61% rispetto all’anno precedente su un totale di 32 mila imprese cedenti, segno della maturità di un settore che tuttavia presenta alcuni aspetti e caratteristiche da tenere in attenta considerazione.

La rigidità, dicevamo: rispetto al factoring, l’invoice trading online offre alle aziende una maggiore flessibilità rispetto nella scelta di quali crediti commerciali cedere per ottenere liquidità immediata dagli investitori istituzionali. Un elemento, quest’ultimo, che ne fa oggi uno dei settori a maggior crescita della del fintech italiano, e che consente di collocarlo in forma stabile quale una delle forme di finanziamento complementare rispetto al credito bancario e al factoring stesso, con un aumento del 90% anno su un anno del transato che conferma il crescente interesse da parte delle aziende rispetto alle soluzioni più conosciute.

Insieme, al fianco delle imprese che hanno bisogno di liquidità in tempi brevi e senza mettere a rischio la propria sostenibilità aziendale: questo è l’obiettivo della partnership tra CashMe SpA e Change Capital e che porterà un numero sempre maggiore di piccole e medie imprese a beneficiare della possibilità di cedere i propri crediti commerciali in maniera pro-soluto a investitori istituzionali qualificati tramite la nostra piattaforma di invoice trading online.

Nata a maggio 2019, Change Capital è a tutti gli effetti una scaleup fintech che ha profondamente innovato e rinnovato le modalità di accesso al credito delle PMI, identificando a favore di imprenditori, CFO e responsabili amministrativi i canali e le modalità più idonee a trovare rapidamente le risorse finanziarie necessarie ai propri investimenti o al finanziamento del capitale circolante. Tra queste si aggiunge anche CashMe quale soluzione di invoice trading online e digital reverse.

In questo senso, il percorso comune cominciato oltre due anni fa con i primi contatti tra i team di CashMe SpA e Change Capital è diventato ormai una partnership consolidata, nell’ottica di aiutare i clienti di entrambe le aziende ad accedere più agevolmente e in maniera strutturata alle possibilità di finanziamento messe a disposizione dalle due piattaforme: verticale e specializzata nell’invoice trading e reverse digitale quella di CashMe, generalista e con un ruolo di facilitatore tra aziende e nuovi mercati del credito quella di Change Capital.

A determinare in senso positivo la decisione di ufficializzare il nostro percorso comune è stata la consapevolezza, maturata nel corso del tempo e della collaborazione tra i due team, di essere attori dello stesso mercato e di poter, insieme, offrire un servizio più ampio ai clienti di entrambe le aziende. Change Capital, in particolare, si è dimostrato un partner affidabile in grado di selezionare con cura le aziende proposte ed effettivamente in linea con i criteri dei nostri investitori, e soprattutto in grado di condividere il nostro approccio “phygital” al mercato. Entrambe le realtà, infatti, offrono strumenti tecnologici avanzati accompagnati dalla presenza di consulenti specializzati: un ulteriore punto di contatto su cui costruire l’architettura della nostra comune offerta di servizi fintech.

Parola d’ordine crescita: CashMe chiude il proprio anno solare con una serie di numeri estremamente positivi. Specializzata in invoice trading per le imprese tramite cessione del credito commerciale pro soluto e parte integrante del Gruppo Finservice S.p.A., registra una crescita di fatturato del 250% rispetto all’anno precedente, un incremento di oltre 200 milioni di euro dei volumi di transato ed un EBITDA pari al 56%. Nel corso del 2022 l’impresa, presente con sedi fisiche a Mantova e Milano, ha consolidato la propria posizione nel campo della supply chain finance, puntando sul servizio di reverse digitale per le aziende capo-filiera al fine di consentire loro di sostenere i propri fornitori tramite la cessione pro soluto delle fatture.

I traguardi tagliati di recente non frenano la nostra ambizione – afferma Marcello Scalmati, CEO di CashMe – Nel corso dell’anno corrente prevediamo di sviluppare ulteriormente la linea di servizi per le banche con l’obiettivo di fornire agli istituti finanziari nuovi strumenti digitali di ultima generazione. Entrando più nello specifico, questi sistemi dovranno essere in grado di coniugare rapidità, meno burocrazia e una predisposizione all’ondata di cambiamento prodotta dal fintech. E non è finita qui perché il 2023 segna anche l’inizio del processo di crescita per linee esterne tramite acquisizioni di altri operatori di mercato”. Ma non è tutto perché CashMe è l’unica azienda del proprio settore ad utilizzare un modello operativo phygital.

Questo prende forma, in primo luogo, grazie ad un’innovativa piattaforma digitale di invoice trading che offre l’opportunità ad imprese di tutte le dimensioni di cedere i crediti commerciali verso investitori istituzionali in maniera pro-soluto e senza segnalazione in centrale rischi. Questa digital platform viene affiancata, anzi arricchita dalla professionalità di consulenti in carne ed ossa. Qui entra in gioco Gruppo Finservice S.p.A., organizzazione specializzata in consulenze di finanza agevolata, di cui CashMe fa parte da ben quattro anni. “Siamo un’azienda molto attenta ai trend e alla digitalizzazione – dichiara Guido Rovesta, presidente di Gruppo Finservice S.p.A. – E proprio per questo siamo al fianco di CashMe e della piattaforma messa da loro a disposizione attraverso il nostro centro di sviluppo tecnologico. Stiamo vivendo nel presente con la velocità del futuro e la velocità è la prima necessità delle imprese nel reperimento di risorse finanziarie.”

Dagli 820 milioni di euro in meno delle imprese attive in Veneto ai 214 milioni di euro in meno di quelle localizzate in Liguria: sono queste le due regioni che hanno subito le contrazioni più marcate e rilevanti dei prestiti bancari alle Piccole e Medie imprese italiane tra il 2021 e il 2022, secondo quanto emerge dall’ultima elaborazione dell’Ufficio studi della Cgia di Mestre.

Nel dettaglio, il volume dei prestiti bancari alle PMI si è ridotto nell’arco di poco più di un anno di oltre 5,3 miliardi di euro, in calo da 124 a 118,7 miliardi di euro ottenuti in prestito nel periodo precedente da parte delle aziende con meno di 20 addetti. Al triste “primato” di Veneto e Umbria si aggiungono inoltre Friuli Venezia Giulia (-177,8 milioni) e Liguria (-214,4 milioni di euro).

A livello di singole province, non da ultimo, la situazione appare essere molto più diversificata, con il calo maggiore subito da Sondrio in termini percentuali (-8,32%, pari a 59,8 milioni di euro) e da Venezia in termini di volumi (-173,8 milioni, a fronte di un calo di “soli” 7 punti percentuali). Biella, Caltanissetta, Sassari, Sud Sardegna e Nuoro le uniche province in attivo, seppur di poco.

Le richieste delle PMI alle banche, tuttavia, da tempo non riguardano più solo la disponibilità di maggiori linee di credito. Secondo uno studio realizzato da b-ilty di Gruppo Illimity, infatti, le aziende di dimensioni minori si aspettano di ricevere dalle banche una risposta puntuale, veloce e trasparente alle proprie richieste, attraverso canali digitali o ibridi di contatto e che sappiano valorizzare il fattore umano. Liquidità si, dunque, ma anche servizi innovativi e capaci di far risparmiare tempo ancor prima che denaro.

Flessibilità, personalizzazione, contatto umano: non a caso queste caratteristiche di servizio sono quelle fatte proprie da aziende fintech come CashMe SpA, che offre un servizio di invoice trading e digital reverse basato sull’utilizzo di una piattaforma tecnologica e sulla presenza costante di consulenti dedicati per tutte le esigenze di finanziamento del capitale circolante. Una scelta precisa, compiuta fin dall’inizio, che oggi si rivela essere tanto più importante quanto più gli istituti di credito tradizionale tendono a ritirarsi dal loro ruolo tradizionale di supporto all’economia reale in quasi tutti i territori italiani.

In un contesto di generale rafforzamento dei criteri di valutazione del rating aziendale imposto dagli organismi di controllo, di crescita dei tassi di interesse e di innalzamento dei capitali di vigilanza per le banche più a rischio, non vi è da sorprendersi che le prospettive per il mercato del credito nei prossimi mesi possano rivelarsi ancora eccessivamente ottimistiche. Per questi motivi è importante per gli imprenditori, soprattutto quelli delle aziende piccole e medie, iniziare fin da subito a esplorare canali di finanziamento alternativi, soprattutto se si trovano in quelle regioni o province più penalizzate di altre.