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Crescono le composizioni negoziate anno su anno, e aumenta anche il fatturato medio delle aziende che vi fanno ricorso, con 167 imprese che sono già riuscite trovare una via di risanamento rispetto alle 1.608 domande presentate, per un totale di 8.250 posti di lavoro preservati e una riduzione significativa del numero di procedure aperte presso i tribunali.

Sono, questi, alcuni dei principali risultati che emergono dalla lettura della prima edizione dell’Osservatorio nazionale sulla Crisi d’Impresa, realizzato da Unioncamere sulla base dei dati di Infocamere relativi all’andamento delle procedure di regolazione delle crisi, di cui abbiamo avuto opportunità di discutere insieme a Sandro Pettinato, vicesegretario generale di Unioncamere con la responsabilità dell’Area “Promozione servizi alle imprese“.

Dottor Pettinato, da dove nasce l’idea dell’Osservatorio nazionale sulla crisi d’impresa?

Sono ormai cinque anni che Unioncamere si occupa a tempo pieno dell’andamento e delle tematiche riguardanti la gestione della crisi d’impresa. Dal 2021, inoltre, forniamo assistenza alle Camere di commercio per l’implementazione del servizio di Composizione negoziata per la soluzione delle crisi. Da queste premesse è nata l’esigenza di un Osservatorio – il primo in Italia – in grado di monitorare il confronto tra le procedure giudiziarie e quelle stragiudiziali, basato su dati certi e con cadenza semestrale.

Quali sono i risultati più importanti che emergono, a suo giudizio, dall’Osservatorio?

L’Osservatorio dimostra da un lato la crescita dell’interesse verso il ricorso a strumenti stragiudiziali di risoluzione della crisi d’impresa, dall’altro il crollo delle amministrazioni straordinarie e il calo continuo del ricorso a strumenti tradizionali, come il concordato preventivo. A fronte di tempi lunghi, e percentuali di successo minime per i creditori, le procedure stragiudiziali stanno crescendo rapidamente grazie alla maggiore informalità e facilità dei processi, che consentono la prosecuzione dell’entità aziendale e la riduzione del carico di lavoro dei tribunali. La strada da compiere è ancora lunga, rispetto agli obiettivi previsti dal PNRR, ma sono numerosi i segnali positivi di cambiamento.

Quali sono i segnali favorevoli nei confronti della composizione negoziata?

Notiamo un diverso atteggiamento da parte dei creditori privati, specialmente le banche, che hanno dimostrato negli ultimi tempi una maggiore maturità “di sistema”. Molti istituti oggi rinunciano a pretendere l’erogazione immediata dei crediti, soprattutto per quanto riguarda gli importi minori, e sono maggiormente disposti coordinarsi con tutti gli altri attori coinvolti per una risoluzione proficua della crisi. Al tempo stesso gli enti pubblici come l’agenzia delle entrate – favoriti dal nuovo decreto correttivo – stanno sviluppando dei meccanismi interni per essere in grado di negoziare la restituzione degli importi non versati in maniera dilazionata nel tempo, anziché accanirsi sul debitore nel momento di massima difficoltà. Una possibilità che viene offerta, ovviamente, a fronte di un piano di risanamento credibile.

Quali sono i maggiori ostacoli che frenano ancora oggi il ricorso alle procedure stragiudiziali?

Si tratta per lo più di ostacoli di natura culturale. Il ruolo dei professionisti, in questo senso, è cruciale per favorire l’adozione della composizione negoziata, al posto dei tradizionali meccanismi di gestione delle imprese indebitate che spesso si dimostrano inadeguati ad assicurare la continuità aziendale, con conseguente danno per il creditore. Al tempo stesso, ritengo molto importante l’implementazione di strumenti di controllo adeguati e di indicatori di monitoraggio dello stato di salute dell’impresa, che andrebbero incentivati maggiormente a livello politico al fine di intervenire per tempo in caso di una crisi all’orizzonte.

Qual è il ruolo dei professionisti nel favorire l’adozione delle procedure stragiudiziali?

I professionisti, in particolare, devono essere messi nelle condizioni di avere una visione d’insieme degli strumenti a disposizione e di ricevere un’adeguata formazione in merito all’uso e all’utilità degli strumenti stragiudiziali e non professionali. Ad oggi, il gestore della crisi d’impresa è mediamente un professionista con alle spalle poco più di 300 ore di formazione e due o tre procedure alle spalle: troppo poco, a mio giudizio, mentre servirebbero figure verticali e specializzate che la legislazione corrente al momento non prevede.

Dottor Fogliata, quali sono le prospettive a breve termine del mercato del credito delle PMI e quali sono, secondo lei, i fattori di criticità da tenere in considerazione?

Il recente rialzo dei tassi di interesse ha messo fine a oltre un decennio di tassi che potremmo definire da “prefisso telefonico”. Questo ha portato le imprese – in particolare la piccola e media – a gestire un nuovo scenario all’interno del quale gli oneri finanziari sono tornati ad essere una voce di peso all’interno del conto economico. Se un debito complessivo di 5 milioni di euro per una PMI al tasso dell’uno percento comportava fino a poco tempo fa interessi annui pari a 50.000 €, con tassi pari al 5% il solo esborso per interessi è lievitato a 250.000 €. Se l’indebitamento complessivo non è destinato a scendere nel breve termine, le PMI si trovano ora ad affrontare la necessità di diversificare le fonti di accesso al credito.

L’introduzione dell’Ifrs 9 e delle linee guida EBA che impongono indicatori di allerta precoce e analisi ancor più approfondite per l’accesso al credito hanno portato, infatti, gli intermediari finanziari a sviluppare metriche sempre più dettagliate e precise per misurare la sostenibilità del debito e cercare di evitare il sovraindebitamento dell’impresa. Indicatori che vanno a braccetto con la richiesta sempre più pressante di business plan e piani finanziari che le banche necessariamente chiedono agli imprenditori per concedere nuova finanza.

Questo mutato scenario sta portando anche a un cambio di mentalità da parte degli imprenditori e dei CFO, specie nei confronti della finanza alternativa?

La trasformazione della mentalità di imprenditori e CFO è piuttosto lenta, ma l’impossibilità di ridurre lo stock di debito complessivo impone di andare alla ricerca di finanza alternativa. Se ho notato un’evoluzione di approccio e mentalità nell’impresa è stato proprio su questi ultimi aspetti: la consapevolezza all’interno delle imprese della necessità di redigere piani finanziari per il futuro – ricordiamo che questi adempimenti sono anche dovuti ai fini della compliance al nuovo codice della crisi di impresa e dell’insolvenza – nonché il presidio degli indicatori di sostenibilità del debito tanto cari al mondo degli intermediari finanziari.

Quale ruolo riveste l’invoice trading, e quale può essere il suo margine di crescita nel più ampio mercato della supply chain finance?

L’invoice trading, in questo contesto, è una forma di finanziamento alternativa al canale bancario che consente alle PMI di vendere le loro fatture non ancora pagate a investitori o finanziatori in cambio di liquidità immediata. Questo strumento riveste un ruolo sempre più importante nel mercato della supply chain finance, in quanti fornisce un’alternativa rapida e flessibile ai tradizionali prestiti bancari.

Mi piace sempre ricordare che l’invoice trading inverte i parametri di analisi creditizia concentrando l’attenzione quasi più sul debitore ceduto che sul creditore cedente. Il generale aumento dei tassi ha reso ulteriormente interessante questo strumento in alternativa al canale bancario o al factoring tradizionale. Le imprese, in particolare, gradiscono molto lo strumento soprattutto ove è prevista anche la soluzione pro-soluto che consente di gestire i rischi di credito.

A livello normativo e tecnico, infine, sarebbe interessante superare il limite del secondo comma dell’art. 1260 cc sulla cedibilità dei crediti soprattutto nei rapporti fra PMI e grandi imprese. Comprendo che cessioni plurime potrebbero aggravare oltremodo il lavoro amministrativo ed essere foriere di errori, tuttavia, almeno una prima e unica cessione potrebbe essere garantita. Qualcosa a livello legislativo si può tentare: in Inghilterra, ad esempio, dove è stato introdotto il Reporting on Payment Practices and Performance Regulations, ci sono normative che obbligano le grandi aziende a pubblicare informazioni sulle loro pratiche di pagamento. Questo potrebbe aiutare anche a incentivare a garantire la cedibilità dei crediti.

Da un lato una tecnologia sempre più avanzata, quindi, dall’altro la presenza di professionisti specializzati: chi avrà la meglio?

Inutile dirlo: senza la tecnologia e i canali digitali l’invoice trading avrebbe visto una diffusione ben inferiore a quella attuale. Tuttavia, i recenti sviluppi tecnologici sono a mio avviso ancor più interessanti. A breve avremo PSD3, ovvero un ulteriore perfezionamento della direttiva PSD2: ciò consentirà agli operatori di invoice trading di espandere il mercato del pro-soluto ove creditori e debitori ceduti accettassero di consentire analisi sulla movimentazione di conto corrente. Inutile poi dire quale potrebbe essere il contributo dell’intelligenza artificiale nell’analisi dei dati e nella costruzione di modelli predittivi anche sulla base di trand macroeconomici.

Nonostante la digitalizzazione, il ruolo dei professionisti finanziari rimane cruciale. Essi forniscono consulenza personalizzata alle PMI, aiutandole a comprendere le varie opzioni di finanziamento, fra cui quelle digitali, e a scegliere la soluzione più adatta alle loro esigenze​​.

Le relazioni umane sono fondamentali per costruire fiducia tra le PMI e gli investitori. I professionisti fungono da intermediari, garantendo che entrambe le parti comprendano i la soluzione finanziaria prescelta.

I professionisti utilizzano la loro esperienza per valutare il rischio associato alle fatture in modi che vanno oltre ciò che può essere catturato dagli algoritmi. La loro conoscenza del mercato e delle specifiche situazioni aziendali fornisce un ulteriore livello di sicurezza agli investitori​. La tecnologia ha trasformato l’invoice trading rendendolo più efficiente e sicuro, ma il ruolo dei professionisti e delle relazioni umane rimane insostituibile. Essi forniscono un valore aggiunto attraverso la consulenza personalizzata, la gestione del rischio e il supporto continuo alle PMI. La combinazione di tecnologia avanzata e competenza umana rappresenta la chiave per il successo e la crescita nel mercato dell’invoice trading.

Partner Turnaround and Restructuring di Deloitte Financial Advisory, con una forte expertise in consulenza strategica, gestione manageriale in aziende multinazionali e operazioni di M&A e turnaround, con esperienze in Boston Consulting Group, Fastweb, Autogrill, Vodafone Italia, The Space Cinema e Alchimia Holding, Massimiliano Tiana condivide con noi un’analisi d’insieme delle maggiori sfide che attendono le PMI da qui ai prossimi mesi dal punto di vista dell’accesso alla liquidità e il potenziale degli strumenti di factoring, reverse factoring e invoice trading nel calmierare la dipendenza dalle banche e dalle fonti di finanziamento tradizionali.

Dottor Tiana quali sono, ad oggi, le sfide più importanti che attendono le PMI sui mercati nazionali e internazionali?

L’economia italiana negli ultimi anni si è trovata arenata in un contesto di inedita incertezza, definito dall’alternarsi di diversi fattori e shock esogeni. La diffusione della pandemia, il conflitto russo-ucraino e la crisi del Mar Rosso hanno avuto un notevole impatto sui principali indicatori macroeconomici. In questo contesto, le imprese italiane che si scontrano con situazioni di precrisi, crisi o insolvenza, necessitano di soluzioni di finanziamento flessibili e veloci mirate a garantirne la stabilità.

Quali sono le principali cause di questo contesto di incertezza?

Le importanti dinamiche inflattive degli ultimi anni hanno portato nel 2021 a un aumento record dei prezzi dell’8,1% (dati Banca d’Italia, Bollettino Economico, 2023). Le principali cause di queste alterazioni derivano, da un lato, dalle politiche fiscali e monetarie espansive adottate in risposta alla pandemia di Covid; dall’altro, dall’accentuata instabilità geopolitica legata allo scoppio del conflitto russo-ucraino che ha generato effetti inflattivi sulle commodity. In più, si è aggiunta la crisi del Mar Rosso che ha portato non solo rallentamenti a livello di tempi ma anche un raddoppio dei costi sul trasporto marittimo. In questo contesto, nonostante una lieve normalizzazione nelle quotazioni dei prodotti energetici negli ultimi mesi (-24% dal 2022) rispetto ai picchi post-Covid e ai rialzi connessi allo scoppio del conflitto russo-ucraino, i costi delle materie prime rimangono a livelli elevati e le imprese continuano a risentire degli effetti indiretti dei rincari passati sugli altri beni e delle persistenti pressioni inflattive.

In che modo queste dinamiche hanno avuto un impatto sul rischio di credito?

In un contesto economico contraddistinto da dinamiche inflattive, aumenti di prezzi e difficoltà nell’accesso alla liquidità, il 50% delle imprese italiane, alla fine del 2023, è stato categorizzato, secondo il Cerved Group Score, come ad elevato rischio di credito o in situazione di vulnerabilità finanziaria. Dal punto di vista dimensionale, il quadro economico sta danneggiando in modo significativo soprattutto le micro e piccole imprese, le quali si trovano in situazioni di rischio o vulnerabilità, rispettivamente al 52% e al 36% (Cerved Research). La difficoltà nell’ottenere liquidità emerge come il principale ostacolo per assicurare la continuità aziendale e non è un caso che le imprese italiane, per far fronte alle proprie esigenze finanziarie, ricerchino oggi soluzioni finanziarie che riescano ad assicurare un accesso semplice e diretto alle risorse necessarie.

Quali sono le possibili soluzioni per le imprese?

In questo contesto, Deloitte e le nuove piattaforme online progettate per lo smobilizzo dei crediti offrono servizi – quali invoice trading, factoring e reverse factoring – cruciali per ristabilire l’equilibrio e la stabilità all’interno del tessuto economico italiano. Deloitte Financial Advisory, in particolare, si distingue per l’offerta di una vasta gamma di servizi e competenze in costante evoluzione, supportando le imprese nella definizione delle proprie dinamiche economico-finanziarie, e facilitando la connessione tra cliente e istituto finanziario: il factoring, rivolto specialmente a micro e piccole imprese, e il reverse factoring, dedicato principalmente a medio e grandi imprese.

Quale futuro vede per le piattaforme online di cessione del credito pro-soluto, come quelle di invoice trading?

Negli ultimi anni è in notevole incremento la domanda di soluzioni fintech che permettono di gestire online il sistema di anticipo delle fatture commerciali. In questa prospettiva, l’invoice trading consente lo smobilizzo dei crediti mettendo in contatto, attraverso una piattaforma digitale, aziende che vendono le proprie fatture non ancora riscosse e investitori che acquistano le stesse. Il funzionamento del sistema segue un processo estremamente lineare: l’azienda interessata alla cessione dei crediti commerciali si registra sulla piattaforma, qualora la fattura sia considerata idonea per la cessione, diventa visibile e acquistabile dagli investitori attraverso un’asta al rialzo. Piattaforme come CashMe, in questo senso, consentono di accedere rapidamente a credito disponibile, senza alcuna segnalazione alla Centrale Rischi di Banca d’Italia, preservando la libertà di accesso ad altri finanziamenti.

Alumna LUISS, mentore per Mentors4U e Certified Trade Finance Professional presso la International Chamber of Commerce (ICC),. Giulia De Vendictis ha una lunga e comprovata esperienza nell’ambito del trade finance, oltre ad essere Contributor per il blog “Econopoly – Il Sole24Ore” e una delle prime, in Italia, a fare divulgazione sulla sostenibilità applicata alla supply chain e alla supply chain finance. “La salute finanziaria di un’azienda va di pari passo con la sua sostenibilità ambientale, sociale e di governance: le imprese più strutturate e sostenibili possono incentivare il cambiamento sia nelle aziende capofiliera, sia nei loro fornitori, rendendo la stessa supply chain sostenibile” dichiara in occasione della nostra intervista.

Dottoressa De Vendictis, può dirci come è cambiato nel corso del tempo il concetto di supply chain e perché oggi si parla sempre più spesso di “sustainable supply chain”?

La supply chain, o catena di approvvigionamento fisica, è un termine che comprende in sé tutta la catena di merci e servizi che dal produttore giunge fino al consumatore finale, divenuta sempre più complessa in seguito all’affermarsi della globalizzazione e sempre più sensibile a choc geopolitici quali la pandemia o i conflitti regionali. La “sustainable supply chain” è, in questo senso, una supply chain progettata per rispettare i criteri ESG sia dal punto di vista dei clienti, sia dal punto di vista dei fornitori: l’attenzione ai fattori ambientali, sociali e di governance, infatti, consente all’azienda di crescere, prosperare e resistere ai cambiamenti, ottenendo anche migliori condizioni di finanziamento da banche e investitori istituzionali.

Vuole condividere con noi un esempio, in tal senso?

Essere sostenibili è un dovere dal punto di vista etico, ma anche finanziario, perché investitori, mercato e sistema bancario selezionano le imprese non più solo dal punto di vista delle performance di bilancio, ma anche in base al loro report di sostenibilità. In questo senso, un’impresa che sceglie di rivolgersi a fornitori di servizi che hanno deciso di adottare strumenti e processi in grado di ridurre le proprie emissioni GHG (n.d.r. vale a dire le emissioni indirette dovute alla produzione dell’elettricità, del vapore o del calore e in qualche modo riconducibili all’impresa stessa) può generare conseguenze positive sul calcolo totale delle emissioni di tutta la propria filiera e, di conseguenza, attrarre maggiori risorse da banche e investitori.

Che cosa può fare un’impresa per rendere più sostenibili i suoi fornitori?

Applicare la sostenibilità alla supply chain è un esercizio complesso che dipende, in larga misura, dal potere contrattuale delle parti. Un’azienda può cominciare innanzitutto a cambiare sé stessa, ottenendo per esempio certificazioni ISO o SA8000 e facendosi attribuire un rating ESG a partire dal quale individuare possibili aree di miglioramento. Dopo questo primo passo, di studio e di analisi rigorosa, diventa più semplice informarsi sulle pratiche di sostenibilità, i rating, le certificazioni, l’impegno assunto dai fornitori e decidere a quel punto di favorire o penalizzare questi ultimi in base al loro rating ESG e alla loro propensione verso la sostenibilità, anche facendo leva su strumenti di finanziamento innovativi e sull’accesso a programmi di sustainable supply chain finance.

Quali sono questi strumenti finanziari che possono favorire questo processo?

I prodotti di ottimizzazione del capitale circolante più utilizzati da acquirenti e fornitori sono il confirming, il factoring, il reverse factoring e lo sconto fatture, offerti ormai in maniera complementare da banche e fintech. Da notare, innanzitutto, come la digitalizzazione di questi servizi sia di per sé una pratica sostenibile, perché consente un notevole risparmio di carta rispetto al passato e permette di compensare la chiusura delle filiali e il trasferimento degli istituti di credito dal centro e dal sud del Paese. Questo cambiamento verso il trade finance “paper-less” ovviamente è stato accelerato dalla pandemia da Covid-19 e dal diffondersi del remote working e dello smart working. Nel caso del reverse factoring tradizionale e del digital reverse, in particolare, una grande impresa può oggi offrire ai propri fornitori la possibilità di cedere i crediti commerciali a condizioni di finanziamento più vantaggiose rispetto a quelle che gli stessi fornitori potrebbero ottenere presentandosi individualmente alle banche, senza la necessità di sottoscrivere direttamente linee di credito per factoring. La sostenibilità della supply chain, in questo senso, è una sostenibilità dalle molteplici facce: ambientale, sociale, ma anche finanziaria.

Che cosa manca perché il concetto di sustainable supply chain finance possa affermarsi del tutto?

Da un lato, come ho avuto occasione di approfondire in un mio precedente articolo, un cambio di mentalità degli imprenditori e dei manager, soprattutto quelli delle PMI, che non sono sempre convinti del fatto che la performance di un’impresa sia influenzata anche dalla sua sostenibilità ambientale, sociale e di governance. Dall’altro, servono sempre più esperti nelle banche, come nelle fintech, capaci di comprendere i bisogni dei propri clienti e di rispondere a questi ultimi tramite una conoscenza delle pratiche, degli strumenti e delle normative maturata sia attraverso il proprio lavoro, sia tramite un’attività di formazione e aggiornamento costante. Strumenti come il digital reverse, in questo senso, possono essere un buon punto di partenza per promuovere l’innovazione e la digitalizzazione della propria filiera, in un’ottica win-win.

Secondo il modello messo a punto dall’Osservatorio Innovazione Digitale nelle PMI emerge che il 55% delle piccole e medie aziende italiane sia oggi in una condizione di arretratezza rispetto al digitale, mentre il 45% ha già avviato con intensità differenti percorsi di digitalizzazione, dimostrando più attenzione alla crescita delle competenze digitali e all’impiego diffuso delle tecnologie. In particolare, il 9% di queste aziende appartengono al segmento da noi definito come “Avanzato“, qualificato anche da una maggiore attenzione per le strategie collaborative.

Rispetto alla precedente rilevazione assistiamo a un peggioramento dei segmenti più evoluti (-5%), ma non bisogna farsi ingannare. La spiegazione non sta nella disaffezione verso il digitale, ma nella necessità di risolvere problemi contingenti – crisi delle supply chain e crisi energetica – che hanno spostato l’attenzione verso problemi da risolvere nell’immediato, pena il rischio di sopravvivenza dell’azienda. Gli investimenti nel digitale sono stati così spostati in avanti sull’asse temporale, mentre le aziende che negli anni precedenti avevano già compreso l’importanza della tecnologia hanno confermato l’interesse verso il tema.

Nello specifico, il modello di maturità digitale messo a punto dall’Osservatorio ha individuato quattro profili che ci permettono di identificare l’approccio delle aziende alla cultura digitale, alla trasformazione nei processi lavorativi e alla collaborazione con l’ecosistema esterno. In questa classificazione il 16% sono imprese “Scettiche“, poco attente agli investimenti e alle competenze digitali, il 39% risultano “Timide“, con un buon livello di cultura e uso del digitale ma non ancora pronte a impieghi trsversali in azienda, il 36% sono aziende “Convinte” e il 9% “Avanzate”, cioè dotate di un livello ottimale di cultura e digitalizzazione dei processi lavorativi e pronte a collaborare con soggetti ad alto tasso tecnologico, come le startup, utilizzando bene i contributi europei e i bandi a sostegno della digitalizzazione.

In questo contesto, i maggiori ostacoli per un imprenditore interessato alla digitalizzazione riguardano la propria sfera individuale e quella dell’ecosistema di appartenenza. Se è vero che la cultura gestionale di alcune aziende non riconosce al digitale il ruolo di alleato nello sviluppo dell’impresa, dall’altro lato l’ecosistema di riferimento – professionisti, software house, banche, associazioni di categoria, innovation hub territoriali – spesso non è in grado di dare un contributo di sostanza al miglioramento della cultura gestionale delle imprese. Ciò è tanto più urgente quanto più diminuiscono le dimensioni aziendali: in questo caso, la quotidianità non consente all’imprenditore di trovare il tempo adeguato da dedicare alla programmazione e allo sviluppo.

L’ecosistema, nelle sue diverse espressioni, deve quindi cambiare i propri paradigmi tradizionali per comprendere a fondo le problematiche sui mercati di sbocco e di approvvigionamento delle aziende, formulando ipotesi collaborative e in grado di generare reale valore all’azienda all’interno della gestione caratteristica, deputata a remunerare il capitale di rischio. Il vero valore per l’impresa non è infatti quello di acquistare la miglior soluzione esistente sul mercato, ma acquistare quella più funzionale al raggiungimento degli obiettivi strategici definiti, relazionandosi con dei partner tecnologici in grado di ascoltare non solamente le richieste espresse dai clienti ma di individuare quelle latenti, attraverso la raccolta di informazioni sui mercati di sbocco e di fornitura. In questo modo è possibile sviluppare una relazione duratura, in cui gli obiettivi dell’impresa diventano anche gli obiettivi del fornitore, che li interiorizza, comprendendoli appieno e mettendoli a terra attraverso proposte in linea con le reali strategie aziendali.

Claudio Rorato
Direttore Osservatorio Innovazione Digitale nelle PMI del Politecnico di Milano

Negli ultimi anni la pandemia, la guerra e la conseguente crisi energetica hanno avuto un impatto significativo sulle PMI costringendo gli istituti finanziari ad adeguarsi al nuovo contesto macroeconomico. Il sistema bancario, nonostante l’intervento del Governo a sostegno delle imprese, si è tenuto cauto nell’erogazione di nuova finanza a causa della forte incertezza rispetto a una potenziale ripresa economica, malgrado le PMI rappresentino tuttora il pilastro dell’economia italiana. Nel frattempo, le competenze dei manager delle PMI sono andate aumentando nel corso del tempo, costringendo il sistema bancario a innovarsi per non soccombere alla concorrenza di soggetti che forniscono servizi alternativi in maniera fluida e accessibile, soprattutto per quanto riguarda la gestione del credito.

Se le misure di sostegno alle PMI da parte del Governo hanno ridotto la probabilità di arrivare a un vero e proprio “credit crunch” ad oggi la situazione rimane estremamente delicata. Una volta esauriti i sostegni, le imprese devono fronteggiare un contesto macroeconomico molto sfidante, determinato dagli elevati livelli di crediti unlikely to pay e stage 2 (rispettivamente pari a ca. €30 miliardi ed €250 miliardi secondo le ultime stime disponibili) nel mercato italiano che potrebbero trasformarsi in sofferenze se non gestiti in maniera corretta da parte del sistema bancario, anche a causa dei cambiamenti nella definizione di default subentrati a partire dal 2021. Pur senza arrivare a livelli drammatici, la riduzione dell’offerta di credito alle imprese da parte delle banche, già osservata a fine 2022, sarà un fenomeno consequenziale ai mutamenti economici e lo sarà altrettanto il ricorso da parte delle PMI al mondo fintech per contenere il pericolo di una crisi di liquidità.

Le esigenze dei manager delle PMI sono infatti cambiate nel corso del tempo e, ad oggi, le principali richieste sono legate all’ottenimento di finanziamenti a condizioni competitive, alla possibilità di accedere a servizi di pagamento immediati e chiari, senza provvigioni o comunque riducendo al minimo queste ultime, e alla necessità di ricevere un’assistenza tempestiva e costante. Le aziende fintech, rispetto ai tradizionali operatori finanziari, sono in grado di rispondere al meglio a tutte queste esigenze, facilitando le esecuzioni dei processi e sviluppando modelli operativi molto specifici per determinate aree del “business” finanziario.

L’invoice trading, in questo contesto, consente alle aziende di ottenere fondi nell’immediato tramite la vendita delle fatture ad operatori specializzati: una modalità di finanziamento particolarmente utile per le aziende caratterizzate da un alto volume di vendite a credito o che si trovano in una situazione di stress finanziario, ma anche per quelle aziende che sono andate incontro a una diminuzione del fatturato (e che quindi hanno maggiori difficoltà ad accedere al credito bancario) e per le aziende che stanno acquisendo nuovi ordini dopo un periodo di crisi e non trovano nel sistema creditizio tradizionale delle soluzioni sufficientemente reattive.

Nel prossimo futuro l’invoice trading potrebbe quindi andare incontro a una ulteriore, massiccia diffusione in virtù di tre caratteristiche fondamentali:

In questo senso è possibile affermare che l’invoice trading innesca una reazione a catena nel sistema economico, aiutando da un lato le PMI a non incorrere in crisi di liquidità e dall’altro a mantenere il sistema bancario più solido grazie al miglioramento dello standing creditizio dei debitori in essere. Non è da escludersi, in questo contesto, lo sviluppo di potenziali sinergie con gli istituti bancari tradizionali nell’ottica di mettere a disposizione di questi ultimi dei servizi alternativi appetibili per potenziali clienti – dalle PMI alle startup in fase di crescita – laddove le banche non sono presenti o non vogliono incrementare la propria esposizione.

Lorenzo Zini

Laureata in ingegneria informatica, dopo un’esperienza nell’ambito della cybersecurity dei grandi istituti finanziari Federica Baiocchi dal 2022 è a capo del team innovation & fintech di EY, specializzato in attività di ricerca, consulenza e formazione in merito ai trend innovativi del mondo dei servizi finanziari. “Banche e fintech parlano ancora un linguaggio diverso ma condividono sempre più spesso il medesimo obiettivo – afferma nel corso dell’intervista per il nostro blog – Il loro scopo è quello di creare prodotti e servizi sempre più di valore, digitali, intuitivi e realizzati su misura per i propri clienti“.

Dottoressa Baiocchi, quali sono ad oggi le principali tendenze in atto nel settore fintech a livello globale?

Pagamenti, embedded finance e fintech for good sono oggi i principali trend di settore: se da un lato i pagamenti digitali sono il trend più facile da cogliere in virtù della diffusione dei nuovi strumenti di pagamento nella vita quotidiana, quello dell’embedded finance è per lo più invisibile per l’utente finale, caratterizzato dall’integrazione di prodotti e servizi finanziari all’interno dell’esperienza di un brand non finanziario. Infine, il trend del “fintech for good” è destinato a ricoprire un ruolo significativo nell’adozione e nel rispetto dei criteri ESG e degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU, favorendo l’inclusione finanziaria e l’investimento in realtà sostenibili.

Rispetto allo scenario internazionale, quali sono le caratteristiche peculiari del settore Fintech italiano?

Pur non avendo ancora raggiunto la massa critica di volumi di investimento rispetto ad altri ecosistemi più evoluti, l’ecosistema fintech italiano nel 2022 ha superato il miliardo di fondi raccolti, è andato incontro a un’importante evoluzione grazie a una velocità di raccolta di capitali quasi doppia rispetto a quella europea ed è diventato il principale settore di investimento dei venture capital nell’anno appena trascorso. Nel nostro studio Fintech Waves 2023, realizzato in collaborazione con il Fintech District, è evidente il sorpasso delle startup in fase di “early growth” rispetto alle “early stage” e la maggiore predisposizione degli imprenditori a cercare investitori italiani e internazionali, anziché ricorrere alle proprie limitate disponibilità personali.

Quali sono le prospettive da qui ai prossimi mesi?

Il supporto garantito dal MISE attraverso CDP Venture Capital, gli investimenti del PNRR e la crescente attrattività verso i venture capital internazionali consentiranno di valorizzare il talento e le competenze dei nostri imprenditori, anche grazie a un drastico ridimensionamento dei costi di costituzione di nuove imprese e in particolare delle Srl. Tra i settori con più alto potenziale di crescita in Italia possiamo citare i servizi finanziari dedicati alle PMI (digital lending e non solo), l’insurtech, il techfin, il mondo payments, mentre gli investitori saranno sempre più selettivi e tenderanno a valorizzare le realtà in grado di proporre modelli di business sostenibili e profittevoli già nel medio periodo, specialmente in uno scenario globale così incerto come quello che stiamo attraversando.

Qual è il livello di consapevolezza del fintech B2B da parte degli imprenditori, invece, soprattutto dei titolari di PMI?

I dati dell’Osservatorio del Politecnico e l’EY SME Survey sono concordi su un punto: il livello di consapevolezza rimane basso, soprattutto tra le microimprese più portate di altre ad affidarsi a una sola banca e a non dotarsi delle coperture assicurative al di fuori di quelle obbligatorie. Eppure, nonostante questa perdurante dipendenza nei confronti di un singolo istituto di credito notiamo come sempre più spesso il fintech venga utilizzato in aggiunta ai canali tradizionali per rispondere a una specifica esigenza dettata dal tempo, dalla comodità, dalla flessibilità richiesta in un determinato momento. Il fintech, e soprattutto il settore della finanza alternativa grazie alla tecnologia e al digitale, sta diventando per molti imprenditori un servizio complementare rispetto a quello bancario.

Quali sono i fattori che determineranno il successo, da qui ai prossimi anni?

La capacità di trovare modelli efficaci di collaborazione con le banche da parte delle fintech e la fiducia degli istituti finanziari nei confronti delle startup più innovative, con l’obiettivo di mettere a fattor comune la base clienti e le capacità tecnologiche e di innovazione. Non è un percorso facile, né scontato, soprattutto in un Paese già ampiamente bancarizzato come il nostro, almeno per quanto riguarda i segmenti classici a cui si rivolgono i servizi finanziari, sia corporate che retail. Eppure, anche in questo caso, il nostro osservatorio di ricerca ha il privilegio di assistere a quella che ci piace definire una “fintechizzazione” del mondo bancario, dove le app, i siti web, ma anche la mentalità e i servizi offerti sono sempre più simili a quelle delle fintech. Al tempo stesso, le fintech stanno sempre più scoprendo la possibilità di servire nicchie di mercato non raggiunte dalle banche, come le stesse PMI e micro-imprese dove poter proporre soluzioni ad hoc.

Quali sono, in questo contesto, le prospettive del settore invoice trading?

L’invoice trading è proprio un esempio di come i nuovi player possano presidiare con successo nicchie di mercato non servite dalle banche, consentendo alle PMI di ottenere liquidità senza indebitarsi e senza segnalazioni in Centrale Rischi, rispondendo a un’esigenza di velocità che abbiamo identificato come prioritaria nella nostra EY SME Survey. In particolare, emerge come alcune aziende siano disposte a pagare di più per evitare i tempi di attesa e le rigidità del sistema bancario: la prospettiva, anche in questo caso, è quella di una convivenza tra banche e fintech, profittevole per entrambe e soprattutto per il cliente finale.

Molte PMI oggi si trovano ad affrontare sfide eccezionali. Il nuovo Codice della Crisi e dell’Insolvenza come può intervenire in loro aiuto?

Le piccole e medie imprese italiane, che sono sicuramente l’ossatura della nostra economia, negli ultimi anni hanno dovuto fronteggiare sfide eccezionali quali pandemia, inflazione, aumento dei tassi di interesse, guerra, scarsità di materie prime e costi energetici in grande aumento.

In questo contesto straordinario, il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) può sicuramente venire in soccorso delle PMI, avendo tra i suoi principi ispiratori proprio quello della salvaguardia della continuità aziendale, a discapito di accordi liquidatori resi più onerosi, e quello della buona fede e correttezza nelle trattative, richiamando quindi tutti i soggetti coinvolti da una crisi aziendale (creditori e debitore) a lavorare insieme per la ricerca di soluzioni di risanamento. Per quanto riguarda la salvaguardia della continuità aziendale, il CCII tutela ora quest’ultima al pari della par condicio creditorum, purché ovviamente il risanamento risulti più conveniente della liquidazione, e ciò si esplica sotto vari profili, quali, a titolo esemplificativo, la possibilità di realizzare un concordato in continuità sia in via diretta che indiretta, l’assenza di percentuali minime ai creditori chirografari nel concordato in continuità rispetto al concordato liquidatorio e la possibilità di soddisfazione extra concorsuale dei creditori strategici essenziali all’attività d’impresa.

Il CCII prevede nel concreto degli strumenti in grado di anticipare situazioni di crisi?

La tempestività dell’intervento di risanamento aumenta in misura significativa le probabilità di successo di un turnaround e, pertanto, un’ottica forward-looking che consenta di anticipare i segnali di crisi è fondamentale. Il Codice della crisi riconosce l’importanza di questo approccio ed ha quindi rafforzato l’obbligo per tutte le società di dotarsi di adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili in grado di prevedere e di contrastare la crisi d’impresa. Tale previsione normativa deve affiancarsi all’intervento e al supporto dei consulenti e manager dell’impresa, al fine di assistere imprenditori e amministratori nell’implementare un sistema di KPI (Key Performance Indicators) che colga per tempo i segnali della crisi, anche quando inizialmente sono deboli, ma ugualmente identificabili.

Tali indicatori, a mio avviso, devono essere in grado di cogliere le difficoltà ben prima che siano segnalate dagli warning derivanti da quando previsto dal CCII all’art. 3 comma 4: retribuzioni scadute da 30 giorni per almeno il 50% dell’ammontare complessivo mensile; fornitori scaduti da almeno 90 giorni superiori a quelli non scaduti; banche scadute o in extra fido da più di 60 giorni per almeno il 5% delle esposizioni; esistenza di una o più delle esposizioni debitorie previste dall’articolo 25-novies, comma 1 relative alle segnalazioni dei creditori pubblici qualificati. Gli indicatori previsti dal CCII sono a mio avviso troppo tardivi e unicamente rivelatori di uno stato di crisi già avanzato e questo rappresenta sicuramente un punto di miglioramento su cui intervenire.

Come deve evolvere l’approccio al Corporate Turnaround in questo nuovo contesto?

Le sfide che le imprese stanno fronteggiando sono di una tale complessità e straordinarietà che solo un’assistenza multidisciplinare può assicurare elevate possibilità di successo. L’approccio al Corporate Turnaround, pertanto, deve coinvolgere competenze manageriali in situazioni distressed, finanziarie e legali, che devono essere espresse da un pool di professionisti e manager specializzati, sia interni che esterni all’impresa. Tale team deve trovare la sua guida nel CRO, Chief Restructuring Officer, che è il manager della crisi con provata esperienza di turnaround management in contesti di crisi finanziaria e che abbia anche la necessaria conoscenza degli strumenti legali offerti alle imprese in crisi.

Gli imprenditori, che spesso si trovano ad affrontare situazioni di crisi per la prima volta e faticano quindi a decidere a chi affidarsi, possono selezionare i CRO nell’albo dei CTP, Certified Turnaround Professionals, gestito da EACTP, la European Association of Certified Turnaround Professionals.

Quale sarà, infine, il ruolo degli strumenti di finanza alternativa per prevenire l’aggravarsi della crisi?

Nei processi di turnaround è sempre fondamentale la velocità di azione e la specializzazione degli operatori finanziari che assistono le imprese in crisi. Tra i cosiddetti strumenti definiti di Fintech, o di finanza alternativa, una primaria importanza è rivestita dall’invoice trading tramite lo smobilizzo delle fatture commerciali, cioè la cessione di un credito commerciale, generalmente pro soluto.

L’invoice trading permette alle imprese di migliorare la gestione del cash flow, ottenendo un anticipo di cassa, dopo aver valutato non tanto il rating della società in crisi quanto quello del debitore ceduto e questo meccanismo permette di sostenere anche imprese con un rating critico, dove è improbabile che le banche concedano nuove linee di anticipo fatture, aumentando il proprio livello di rischio. Un altro aspetto importante che caratterizza i soggetti impegnati nell’invoice trading è la tempestività di risposta nei confronti delle imprese in crisi cedenti i crediti, garantita anche dall’utilizzo di piattaforme digitali innovative che facilitano l’interazione tra le PMI cedenti il credito e l’investitore terzo, velocità di azione che è vitale nei risanamenti aziendali.

Alberto Cerini
Board Member European Association of Certified Turnaround Professionals

Direttrice dell’Osservatorio Supply Chain Finance, professoressa del corso di laurea magistrale in Supplier Relationship Management, con esperienza anche in una nota società di consulenza: la carriera di Antonella Moretto si può descrivere come quella di una vera e propria “figlia del Politecnico di Milano”, dove ha trascorso tutto il periodo di studi in ingegneria gestionale e al quale ha dedicato la maggior parte della sua attività nell’ambito dell’insegnamento e della ricerca. “Dopo un periodo nel settore della consulenza, sono tornata al Politecnico come ricercatrice sui temi della Supply Chain Finance e come membro del team di ricerca dell’Osservatorio allora appena creato – racconta durante la nostra intervista – prima di diventarne co-direttrice e guidarlo fino al raggiungimento dei suoi primi dieci anni di attività nel 2022“.

Professoressa Moretto, quali sono stati secondo lei i principali cambiamenti nel mercato delle soluzioni di supply chain finance prima e dopo lo scoppio della pandemia?

Rispetto alla crisi del decennio scorso, quando l’aumento indiscriminato dei tempi di pagamento da parte delle aziende capofiliera aveva messo in grave difficoltà i fornitori di queste ultime, i primi mesi di lockdown hanno reso evidente quanto fosse cresciuta la consapevolezza in termini di supply chain finance e la popolarità delle soluzioni innovative da parte di tutti gli operatori economici di ogni dimensione e settore. Una consapevolezza, quest’ultima, che ha consentito alle imprese capofiliera e ai fornitori di utilizzare in maniera sinergica le diverse soluzioni disponibili: dynamic discounting, confirming e inventory finance hanno raggiunto i maggiori tassi di crescita non a caso proprio nell’ultimo biennio.

Qual è stato il motivo del successo di queste e di altre soluzioni innovative?

Aziende capofiliera, aziende fintech e commercialisti hanno ricoperto un ruolo fondamentale in termini di educazione, formazione e convincimento degli imprenditori, basandosi su numeri ed esempi concreti. Inoltre, rispetto agli anni precedenti è aumentata la facilità d’uso delle tecnologie digitali e la pervasività di queste ultime in tutti i settori di operatività dell’impresa. Per quanto riguarda le singole soluzioni, infine, è importante ricordare come il punto di forza del dynamic discounting sia la possibilità di operare senza un operatore finanziario, e per il confirming la maggiore discrezionalità concessa al fornitore rispetto al reverse factoring. Allo stesso modo, l’inventory finance ha potuto beneficiare di un contesto economico mutato in cui la disponibilità di scorte e la capacità di finanziamento di queste ultime si è rivelata determinante per superare i momenti più difficili del lockdown e dell’interruzione nelle catene globali di fornitura.

Quali sono, in questo contesto, le prospettive di crescita per le soluzioni più tradizionali?

Anticipo fatture e factoring, seppur in calo negli ultimi anni, rimangono tuttora le soluzioni più utilizzate e conosciute. Anche in questi settori, tuttavia, l’utilizzo della tecnologia sarà sempre più determinante per ritornare a crescere: la flessibilità in termini di costi e di fatture da cedere, resa possibile dalle tecnologie, avrà un impatto determinante nell’assicurare una tranquilla maturità agli strumenti più tradizionali.

Quale può essere, invece, il ruolo e le prospettive di crescita dell’invoice trading da qui ai prossimi anni?

A partire dal 2016 l’invoice trading ha fatto registrare tassi di crescita importanti, soprattutto nel nostro Paese, rispondendo ai bisogni di piccole e medie imprese solitamente fuori dal perimetro di attività delle banche e degli operatori finanziari tradizionali. In un contesto come quello italiano, quindi, le prospettive di crescita dell’invoice trading restano assolutamente positive, nel momento in cui il nostro rimane un Paese caratterizzato da una maggioranza di PMI che hanno e avranno sempre più bisogno di liquidità in un periodo contrassegnato dall’aumento dei tassi di interesse e da un ormai imminente credit crunch.

Che cosa aspettarci dalla prossima edizione dell’Osservatorio Supply Chain Finance?

Oltre agli approfondimenti tradizionali dedicheremo sempre maggiore spazio e attenzione ai temi della sostenibilità, della collaborazione tra gli operatori finanziari e della gestione del rischio. Se da un lato la sostenibilità è oggi sempre più integrata e integrabile nelle soluzioni di supply chain finance come metodo di valutazione dei fornitori e dei partner, e la dicotomia tra fintech e mondo finanziario tradizionale sembra essersi risolta in una tendenza generale alla collaborazione e alla ricerca congiunta di nuove opportunità, dall’altro è inevitabile sottolineare quanto inflazione, aumento dei tassi di interesse, interruzioni di filiera, crisi geopolitiche e ripensamento della globalizzazione rappresentino altrettanti rischi finanziari che tornano ad affacciarsi alla finestra, e che non possono essere trascurati in una strategia di supply chain finance.